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CULTURA ITALIANA NEL MONDO - SURREALISMO: ALL'IMAGO MUSEUM DI PESCARA "IN FORMA DI SOGNO. GLI ULTIMI SURREALISTI. MENSA & MATTA" A CURA A.MASI (SEGR.GEN.DANTE ALIGHIERI)

(2024-10-28)

A cento anni dalla nascita del movimento surrealista, l'Imago Museum di Pescara celebra questo importante anniversario con la mostra "In Forma di Sogno. Gli Ultimi Surrealisti. Mensa & Matta", dedicata a due artisti che hanno rappresentato, con la loro arte visionaria, una delle più suggestive continuazioni del Surrealismo: Carlos Mensa e Sebastian Matta.

Ad inaugurare la mostra, che rimarrà aperta fino al 23 febbraio 2025, il Presidente della Fondazione Pescarabruzzo, Nicola Mattoscio, il Sindaco di Pescara, Carlo Masci, e ll curatore della mostra, Segretario Generale della Società' Dante Alighieri, Alessandro Masi.

La mostra propone un viaggio affascinante nel mondo dell’arte surrealista attraverso una selezione delle opere dei due pittori, espressione dello spirito teorizzato da André Breton nel Manifesto del Surrealismo del 1924. Breton descrive l’uomo come un “sognatore definitivo”, il cui pensiero sfugge ai limiti della logica e della ragione, per aprirsi alla potenza del sogno e all’automatismo psichico, cardini dello stesso movimento surrealista.

Sebastian Matta (Santiago del Cile 1911 - Civitavecchia 2002) e Carlos Mensa (Barcellona 1936 - 1982) hanno portato avanti questa visione in modi diversi ma complementari: se per Matta la realtà si dissolve in forme trasfigurate, oniriche e fantasmagoriche, per Mensa il mondo è un teatro surreale, popolato da personaggi fiabeschi, in bilico tra il reale e l’assurdo. Entrambi gli artisti, profondamente influenzati dal progetto “onirico” di Salvador Dalí, hanno esplorato l’inconscio, i sogni e l’immaginazione in un dialogo continuo tra fantasia e realtà, sfidando i confini del possibile.

Tra le opere esposte in mostra,  presente anche un pezzo unico di Salvador Dalí, "Etude pour le chapeau soulier" (1937), un disegno originale a matita su carta intestata dell’Hotel Excelsior di Roma (cm 19 x 14), per gentile prestito della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Quest'opera esprime pienamente il pensiero surrealista daliniano, dove la realtà e l’immaginazione si fondono in maniera inaspettata e bizzarra. Il "chapeau soulier", un cappello a forma di scarpa, è un'iconica rappresentazione della logica capovolta e della sfida alla razionalità che caratterizzano il Surrealismo.

L’esposizione offre quindi un’occasione per scoprire, attraverso le opere di Mensa, Matta e Dalí, l’eredità di questo movimento che ha rivoluzionato la storia dell'arte, creando mondi fluttuanti tra sogno e realtà e invitando lo spettatore a esplorare i confini dell'inverosimile.

Afferma il curatore della mostra Alessandro Masi:

"Dallo stimolante e fruttuoso percorso di confronto tra l’opera di Roberto Sebastián Matta e Carlos Mensa, che questa nuova mostra all’Imago Museum di Pescara rende per la prima volta possibile, non può che scaturire la conferma di quanto l’esperienza surrealista abbia inciso sugli sviluppi dell’arte novecentesca, molto al di là del proprio stretto perimetro storiografico e cronologico.

Se Matta ne è stato figura seminale, e per motivi generazionali anche colui che ne ha concretamente indirizzato gli esiti fino a ricollegarli con la successiva stagione dell’Espressionismo astratto, Mensa ne ha rappresentato l’incontenibile risonanza, l’onda lunga di trasmissione, l’eco persistente.
La storia è quella di due artisti, distanti per provenienza e per dato anagrafico, nonché per risultati stilistici, che hanno tuttavia condiviso un humus comune, portando a un livello di estrema raffinatezza concettuale le premesse surrealiste, l’uno orientandole verso un sottile ossimoro, meditando una pittura che conduce ai confini dell’indefinito, l’altro verso lo scomodo disvelamento delle verità oscure che
serpeggiano tra le quiete giornate dell’uomo contemporaneo.

Roberto Sebastián Antonio Matta Echaurren (1911-2002) nasce a Santiago del Cile da una facoltosa famiglia di origine basca. Si laurea in architettura all’Universidad Católica della capitale, allievo del modernista Sergio Larraín García-Moreno, ma, deciso a tagliare i ponti con un’esistenza che si profila troppo agevole, nel 1934 si imbarca su una nave mercantile, diretto in Europa. A Madrid conosce Federico García Lorca, che un ruolo significativo ha per la sua maturazione intellettuale. A Parigi entra come disegnatore tecnico nello studio del grande Le Corbusier, partecipando al progetto della mai realizzata Ville Radieuse. Grazie ad altri contatti lavora anche al Padiglione spagnolo ideato in occasione dell’Expo del 1937, quello che accoglie il celebre capolavoro Guernica, che ha un ruolo significativo  per la sua maturazione intellettuale e che ha modo di vedere in anteprima.
Si interessa dunque anche alle arti figurative, volgendosi non solo al verbo picassiano, ma anche alle istanze espressive della Nuova Oggettività tedesca, che in quello stesso anno sono pubblicamente bollate dal nazismo come “degenerate” e violentemente censurate.

L’incontro con Dalí e Breton, e la conseguente adesione di Matta al Surrealismo, determinano una svolta definitiva lungo la sua strada, portandolo alla decisione di abbandonare l’architettura in favore della pittura.
Le sue prime tele, i cosiddetti inscapes (combinazione dei termini interiorior + landscape) o morphologies psychologiques ritraggono paesaggi interiori, di una straniante figurazione, che di lì a poco abbandona per un linguaggio più astratto e denso di implicazioni psicologiche.

Presentate all’Exposition Internationale du Surréalisme del 1938, sono eseguite facendo ricorso all’automatismo bretoniano e a una spiccata gestualità, con i quali si propone di liberarsi in modo assoluto dalla supremazia della ragione. Il pittore inglese Gordon Onslow-Ford, amico intimo di Matta, ne ricostruirà la genesi: “mise piccole macchie di giallo, rosso, verde e blu sul bordo di una spatola. Poi, senza esitazione, fece un rapido gesto sulla tela bianca e, poiché non voleva usare pennelli puliti, lavorò la pittura usando le dita, una per il giallo, un’altra per il rosso, ecc. E così stese la pittura, mescolando i colori sulla tela”

Breton, conquistato dalle disertazioni del giovane cileno, lo invita a mettere su carta i suoi pensieri e ne nasce un saggio, anche questo intitolato Morphologie psychologique.
Non è dunque un caso se il fondatore del movimento affermerà: “Matta è colui che maggiormen te tien fede alla propria stella, che è forse sulla strada migliore per arrivare al segreto supremo: il controllo del fuoco”.
Il segreto supremo che egli tenta di penetrare compete a un mondo primordiale, dove agiscono forze ctonie, esplosioni telluriche, impulsi generativi. Lo spazio che le sue opere suggeriscono è un luogo in divenire e tendenzialmente esorbitante, aspirante a quella “quarta dimensione” che il matematico e mistico russo Pyotr Ouspenky va contemporaneamente esponendo nelle sue pubbliche conferenze, amplificando in senso visionario le conclusioni scientifiche della relatività di Einstein.

Marcel Duchamp lo introduce inoltre al pensiero di Jules Henri Poincaré, teorico della geometria non eucli- dea e del moto caotico

Il 1939 è l’anno della fuga di Matta e della diaspora di molti altri artisti verso gli Stati Uniti dove, circon- dato dalla cerchia degli amici surrealisti, rimane fino al 1948, influenzando fortemente con l’esempio del suo peculiare modus operandi i futuri esponenti della Scuola di New York: da Pollock a Gorky, da Rothko a Motherwell.
Nel 1940 tiene la sua prima personale alla Julien Levy Gallery, espone poi in collettive alla Pierre Matisse Gallery e alla Art of this Century di Peggy Guggenheim, fino a partecipare alla mostra surrealista del 1942 organizzata in Madison Avenue da André Breton a favore dei prigionieri di guerra francesi, con Duchamp alla cura dell’allestimento e del catalogo. Le sue abilità di “controllo”, in questi anni intensi ma difficili, devono fare i conti con uno status di “guerriglia interiore”: riappare nelle sue grandi tele la figura umana in riferimento alla società moderna e alle sue contraddizioni (Being with a horrible crisis in the society, 1945-1946), fino a lambire prospettive fantascientifiche, dilaga un senso di inquietudine accentuata dai colori gessosi e fosforescenti. Del resto, la sua permanenza americana si conclude tristemente e amara-mente, con la pesante accusa che gli rivolgono gli stessi surrealisti, ovvero di aver avuto una responsa- bilità sul suicidio di Arshile Gorky, in seguito a una presunta relazione clandestina stretta con la moglie del pittore armeno.

Ciò è anche causa del momentaneo allontanamento di Matta dal gruppo, durato circa un decennio, e il suo breve ritorno in Cile, dove pubblica un manifesto sul ruolo dell’artista rivoluzionario. Ma nel 1949 arriva in Italia e la Roma del dopoguerra lo accoglie nella sua comunità di artisti, poveri ma ancora pieni di sogni, che si aggirano tra le osterie del centro, via Margutta e piazza del Popolo.

Frequenta Afro, Capogrossi, Burri, Leoncillo, Guttuso, Cagli e gli artisti di Forma 1, espone alla Galleria L’Obelisco, conosce Lionello Venturi, Palma Bucarelli, Emilio Villa, Curzio Ma- laparte, Alberto Moravia e ritrova il poeta Pablo Neruda in esilio dal Cile.
Matta rimane fedele alla sua poetica, non perde di vista gli stimoli provenienti da quel mondo primario ed ancestrale ancora di ascendenza sur- realista, dove si agitano animali, personaggi mitologici, madri, guerrieri. Un mondo profondamente poetico, antimaterico e allo stesso tempo reale - “surreale” - ma ai più impercettibile, obliterato dalla prosaicità sensoriale della vita quotidiana. Matta avverte l’urgenza di ripescare a piene manidall’alveo esistenziale, di far riaffiorare l’univer- so custodito e sedimentato del nostro inconscio. Perché l’artista, come il poeta, possiede il “curioso potere [...] di riconoscere qualcosa che non sap- piamo”. L’allucinazione poetica/pittorica, sciolta dalle associazioni logiche, dai vincoli spazio tem- porali e dagli stereotipi imposti dall’educazione e dalla cultura, è dunque la chiave per dare forma visibile all’invisibile.

Le opere degli anni Cinquanta (Eclosion, 1952; Untitled [First Light], 1954; Crescita, 1955; L’Impensabile, 1957) coincidenti con le continue migrazioni dell’artista tra Roma, Londra e Parigi e con la prima importante retrospettiva al MoMA di New York, sono un trionfo di forme fluttuanti e metamorfiche, di masse pullulanti di energia, di vuoti vorticosi, che, dagli anni Sessanta, assumono una carica apertamente sessuale, rivoluziona- ria e liberatoria.

Matta, del resto, in forza di una insospettata coerenza interna, è in grado di ricondurre il proprio immaginifico racconto alla dimensione attuale e politica, nel senso più ampio del termine. Socialista e anticapitalista, irregolare e “nomade” per natura e cultura, cittadino del mondo e poliglotta, si è spesso posto in prima linea per importanti cause, come quando, di fronte all’uccisione di Che Guevera, realizza l’opera Morire per amore (1967), o di fronte all’aggressione americana in Vietnam realizza il Babbo Napalm, versione di denuncia del tradizionale “vecchione” bruciato in Piazza Maggiore a Bologna nel capodanno del 1972. Reagisce naturalmente anche alle ingiustizie vissute dal paese di origine, prima con la sua vicinanza alla Brigata Ramona Parra, collettivo di muralisti cileni con il quale dipinge in una frazione di Santiago il grande murale La prima meta del popolo cileno (1971), destinato ad essere più volte deturpato dopo la salita al potere di Pinochet. Poi con la sua attiva presenza alla Mostra incessante per il Cile (1973-1977), presso la Galleria di Porta Ticinese a Milano, rassegna che rende manifesto il netto rifiuto del mondo dell’arte nei confronti del regime criminale del caudillo. “L’arte non è un lusso; è una necessità. - Aveva dichiarato in uno scritto pubblicato nell’anno caldo 1968. - Proprio come la Rivoluzione deve affrontare nuovi problemi nel campo sociale e trovare nuovi modi per risolverli, nel campo della creazione artistica, del lavoro in- tellettuale, un’immaginazione veramente creativa proporrà soluzioni a questo complesso di proble- mi in continuo rinnovamento, e troverà i mezzi di indagine e di espressione per risolvere adeguata- mente tali problemi”.

Le opere in mostra, alcune di grande forma to, rappresentano la fase matura dell’indagine di Matta, consacrato con una nuova retrospettiva, nel 1985, al Centre Pompidou di Parigi. Gli otto olii fissano altrettanti momenti di “circolazioni vitali” (Dessiner le Systeme de circulation de la vie, 1990), di sviluppi metamorfici (Flower being, 1996), di ebbrezza e stordimento (Le Jardin du Vertige, 1990). La scultura Tauronca rappresenta un saggio della vasta produzione di Matta in questo campo, consistente in forme totemiche in cui per sincretismo si impastano gli infiniti apporti culturali che animano la ricerca dell’arti- sta fino alla fine dei suoi giorni. Sono gli anni in cui Matta progetta Cosmo-Now, serie di cinque obelischi-totem-antenne, alti 10 metri, da instal- lare in ciascuno dei continenti quale emblema di pace universale. Riferimenti meccanici, quasi avveniristici, convivono con la forza espressiva degli idoli inca e l’ineffabile mistero di un sorriso etrusco. I suoi ultimi anni Roberto Matta li trascorre infatti nell’etrusca Tarquinia, dove allestisce in un vecchio convento uno studio, una scuola di ceramica e una sala espositiva, prima di spegnersi, novello Odisseo, nel 2002, all’età di 91 anni.

CARLO MENSA
Carlos Mensa (1936-1982) nasce a Barcellona nel difficile contesto della guerra civile spagnola. A tre anni è costretto a separarsi dalla famiglia, che lo affida a una nave della Croce Rossa destinata a mettere in salvo i figli dei profughi, conducendoli a Casablanca. In seguito alla vittoria di Franco, Sebastián Matta, Flower being, 1996anche la madre fugge, per ritrovarsi dopo pochi mesi con il figlio in Francia. Ma con l’occupazione tedesca di Parigi i due scappano nuovamente, riuscendo a rientrare in Spagna solo nel 1945.
Questa infanzia travagliata gli impedisce una formazione scolastica regolare. Tuttavia, mostrando una notevole inclinazione per il disegno, il giovane Carlos frequenta i corsi di pittura della Casa de La Lonja a Barcellona e trova lavori saltuari come apprendista in una litografia, come disegnatore di tessuti e ceramista. Nel 1957 assiste nella città catalana alla mostra Pittori Italiani, al Palacio de la Virreina, e viene colpito soprattutto da un’opera di De Chirico, Melanconia. Decide di dedicarsi con maggiore impegno alla pittura, ap- profondendo le proprie conoscenze artistiche da autodidatta e guardando inizialmente alle tenden- ze astratto-informali.

La sua prima personale, nel 1960, è allestita al Museo Municipale di Mataró, con un testo in cata- logo a cura dell’amico Josep Maria de Sucre. L’anno successivo fonda con Tea Asensio e Enrique Maas il Grupo Sintesis, che si presenta al pubblico in diverse città spagnole e che confluisce successivamente nella formazione Circle d’Art d’Avui.
L’esempio di Dubuffet e di de Kooning gli torna ancora utile per elaborare un linguaggio fortemente espressivo e materico, anche attraverso la sperimentazione di tecniche miste, parallelamente all’appa- rizione dei suoi primi, inquietanti personaggi, i “monigotes” (pupazzi). Il critico Vicente Aguilera Cerni lo definisce coraggiosamente “brutale, rude e grossolano” e lo inserisce tra gli artisti rappresentati nella Exposición de Arte Con- temporaneo Español en Italia che, toccando varie località italiane, consente a Mensa di intrecciare un rapporto privilegiato con il nostro Paese.

In questo periodo si orienta verso una figurazione più compiuta, seppur alterata, e la cerchia dei “personaggi sociali” raffigurati nelle sue scene dipinte si allarga: una fitta schiera di anti-eroi ritratti nel costante esercizio del proprio vizio capitale, “veri prototipi di volgarità e violenza, d’ottusità ereditaria e turpitudine, di lascivia e falsa rispettabilità”. “La sua era una pittura da moralista – scrive Mario de Micheli – Personaggi ecclesiastici, militari e nobiliari ne erano il bersaglio: vescovi mitriati e preti in tricorno, generali in frac o in divisa coperti di medaglie, aristocratici tristissimi e sussiegosi, e insieme con essi le mogli, i figli, i servi, nonché ogni altra figura decorativa di una Spagna arcaica e feudale”. Il cinismo a cui Mensa ricorre per denunciare l’insopportabile ipocrisia della realtà che lo circonda è ancora una volta paragonabile all’implacabile sguardo che gli artisti della Nuova Oggettività avevano rivolto all’assetto sociale e politico della Repubblica di Weimar, con tanto di tazze di water, protesi, strumenti di tortura e bestiali deformazioni (La Marchesa, 1967; Torero, 1967).

Soggiorna a Parigi e in Italia, dove nel 1968, alla milanese Galleria L’Agrifoglio, tiene la sua prima perso-nale, seguita l’anno dopo da quella alla Nuova Pesa di Roma, presentata da Antonello Trom- badori. Osteggiato dal governo franchista – era stato anche trattenuto per alcuni giorni in carcere dalla polizia politica di Barcellona – decide di pro- lungare la sua permanenza in Italia.

Lo stile di Mensa manifesta ora un brusco rovesciamento, verso un recupero degli umori surrealisti. Alla meticolosità descrittiva, da virtuoso secentesco, con cui ritrae le sue figure maschili e femminili, spesso mascherate (Autoritratto, 1971), si affianca una vena sarcastica e grottesca ancora più cupa, alla Luis Buñuel, con una logica di rapprochement fortuit da consumato indagatore dell’irrazionalità. Ne nascono figure ibride, mo- struose, con innesti anatomici disorientanti, quando non agghiaccianti: al posto delle teste campeggiano elmi, palloni da rugby, maschere antigas, cespi di verdure, le orbite sono prive di occhi, i corpi nudi e sfatti o pesantemente ammantati. Anche i manichini e le “teste d’uovo” di dechiri- chiana memoria perdono la loro dignità metafisica per ricadere nel baratro di una brutale carnalità: “le allegorie di Mensa, infatti – spiega ancora De Micheli – non rimandano mai a un enigma o un sogno, bensì, casomai, agli incubi della realtà”.
La ricercatezza del motivo va di pari passo con l’adozione di un cromatismo tenebroso ma anche raffinato e sontuoso, quasi abbassato di un semitono rispetto ai valori di base, dove dominano i bruni ossidati, i verdi spenti, i grigi e i rossi profondi della grande tradizione coloristica spagnola.

Questo approdo a “un realismo con implicazioni surrealiste”, ovvero a “un espressionismo con apporti onirici”– come Mensa stesso precisa in una delle sue rare testimonianze scritte – l’attualizzazione che l’artista riesce a compiere della “grande intuizione surrealista”, costituisce in definitiva lo strumento con cui l’artista svolge la sua circostanziata indagine sulla condizione umana che – come scrive Enrico Bellati – si profila qua- le “drammatico conflitto tra realtà (apparente) e inconscio, tra ragione e assurdo, tra armonia/ bellezza e violenza/distruzione, tra perfezione e degradazione, tra amore e perversione”.

Dietro e oltre le scoraggianti conclusioni di Mensa intorno al senso dell’esistenza, del resto, non è difficile rintracciare una presa di posizione più specifica, quella che, attraverso un atteggiamento di impegno civile e di denuncia, si batte per affermare il diritto alla speranza. Per l’artista – e non solo per lui – significherà attendere la fine della dittatura di Franco, nel 1975, anno che coincide con quello della serie dei Capricci, immancabile omaggio al conterraneo Goya, pioniere del contrasto alle ingiustizie del potere. La sua attività espositiva si intensifica: diverse mostre si susseguono a Madrid, a Milano e a Brema, ma soprat-tutto, a più riprese, presso la Sala Pelaires di Palma de Maiorca, da cui provengono in massima parte le opere esposte in questa occasione. Si tratta di un nucleo di 16 composizioni eseguite ad olio o acrilico databili tra il 1970 e il 1981, ovvero riferibili all’ultima fase della sua produzione.

Se Mensa conferma le proprie fonti, in primo luogo il Realismo (Home- naje a Vermeer, 1979), il Surrealismo (Ernst e Ma- gritte in particolare) e la Metafisica (Homenaje a De Chirico, 1974), con le consuete apparizioni di militari in divisa, nani e chierichetti, provocanti corpi femminili, incroci meticci di uomini e ani- mali, d’altro canto nelle opere più tarde l’artista sembra aprirsi a risvolti meno feroci e conturbanti, come in Las tres gracias, dove i corpi, accarezzati da una luce argentina e incuranti della presenza estranea e minacciosa di un burka (lo stesso che appare in altri dipinti coevi come emblema del- la violazione della dignità femminile) sembrano attestare una riappacificazione dell’artista con la bellezza classica. Con un nuovo spettro, tuttavia, all’orizzonte: la società dei consumi.

Carlos Mensa si spegne nel 1982, per un male incurabile, nella sua fattoria Mas Noguer nella re- gione dell’Empordà, a soli 46 anni."

Il catalogo della mostra è edito da Fondazione Pescarabruzzo – Gestioni Culturali Srl per la Collana IMAGO MUSEUM.
Imago Museum : Corso Vittorio Emanuele II, n. 270 – Pescara
Apertura: martedì - domenica ore 10:30 - 13:30 e 16:00 - 20:00
I biglietti sono acquistabili presso la biglietteria del museo o su ciaotickets.com. (28/10/2024-ITL/ITNET)

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