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CULTURA ITALIANA NEL MONDO - A NORD /IN TICINO - AL MUSEO D'ARTE DELLA SVIZZERA ITALIANA L'OCCASIONE DI AMMIRARE LE OPERE DI SYLVA GALLI E DELLE ARTISTE DEL SUO TEMPO

(2024-07-03)

Sino alla fine di settembre Pinacoteca Zuest, Museo della Svizzera italiana, offre l'opportunità di ammirare le opere della pittrice SYLVA GALLI (1919-1943) e delle ARTISTE DEL SUO TEMPO fino al 9 settembre.

L’esposizione si inserisce nel filone delle rassegne dedicate alle donne artiste, al quale la Pinacoteca ha sempre riservato un’attenzione particolare, e intende raccogliere le principali opere realizzate da Sylva Galli, restituendo un’immagine a tutto tondo del suo percorso e mettendola a confronto con altre presenze attive negli stessi anni.

Sylva Galli, originaria di Bioggio, sviluppa la sua carriera artistica su un breve arco di tempo a causa della prematura scomparsa a soli 23 anni nel 1943.
Dopo una formazione alle Scuole di disegno di Lugano, frequenta il Technicum di Friborgo e l’Akademie Wabel, una scuola privata di nudo e di paesaggio aperta nel 1939 a Zurigo nello studio di Henry Wabel (1889-1981), orientando così la sua pittura anche all’esterno del territorio ticinese.
I generi da lei trattati vanno dalle nature morte ai ritratti ai paesaggi, agli interni, ai nudi, nei quali esprime una vena artistica già matura nonostante la giovane età.
Due sue opere sono conservate nelle collezioni di Palazzo Pitti a Firenze, una alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma; le altre, ad eccezione di alcuni pezzi importanti di proprietà del Museo d’arte della Svizzera italiana (Lugano), sono custodite ancora oggi dai discendenti.

Alle opere di Sylva è affiancata una selezione di dipinti realizzati da altre pittrici del suo tempo quale complemento e utile confronto. La scelta è ricaduta su coloro che si sono dedicate all’attività artistica tentando di farne una professione, muovendo da studi non solo da autodidatta e partecipando ad esposizioni: Anna Baumann-Kienast, Regina Conti, Rosetta Leins, Margherita Osswald-Toppi, Irma Giudici Russo, Anita Nespoli, Anita Spinelli, Mariangela Rossi, Irma Bernasconi-Pannes, Adelaide Borsa. A Germaine e Simonetta Chiesa, rispettivamente moglie e figlia di Pietro Chiesa, viene dedicata un’apposita sezione.

Nella sala da cui prende avvio il percorso, quale ideale premessa, si presentano inoltre opere delle poche donne con studi accademici che si dedicarono all’arte non solo per diletto appartenenti alle generazioni precedenti: Adelaide Pandiani Maraini, Valeria Pasta Morelli, Marie-Louise Audemars Manzoni e Giovanna Béha-Castagnola.

È inoltre proposta una ricostruzione non filologica realizzata con oggetti del tempo, con l’intento di far assaporare i temi legati al lavoro femminile. Sono esposti in particolare due abiti disegnati da Rachele Giudici, appassionata studiosa di costumi tradizionali ancora legata all’Ottocento, anche se la sua vita si svolse prevalentemente nel XX secolo.
Il lavoro di ricerca e studio è documentato attraverso un catalogo riccamente illustrato, che vuole offrire un primo sguardo su figure significative per ricostruire l’evoluzione della presenza femminile anche in campo artistico.

La presentazione della mostra a cura di Antonio Galli fa stato di una vita breve ma intensamente vissuta nel segno dell'arte e sopravvissuta nella memoria di quanti hanno ammirato la sua arte

"Da piccolo - scrive il cugino - spesso entravo in quelle stanze, cercavo di figurarmi la persona e il carattere, i suoi gesti che riempivano con la spatola le tele di intensi colori. Voleva trasmettere all’immagine la sua forza e la sua volontà di far bene e dar vita così ai suoi quadri. Le opere qui esposte le rendono onore e colmerebbero di gioia i suoi genitori.... I suoi quadri dimostrano come volesse trasmettere la sua determinazione e la sua voglia di esprimere i propri sentimenti, in ogni forma d’arte.

Mi ricordo quando guardavo i suoi quadri, nella casa dei genitori, che ancora oggi esiste, ma allora era isolata in collina, tra i vigneti e gli alberi da frutta. Pensavo alla loro tristezza: già colpiti dalla perdita del primo figlio, avevano dovuto arrendersi di fronte alla morte dell’unica discendente, che essi tanto amavano e per la quale immaginavano certo un futuro ben diverso.

La mostra prende avvio con la presentazione di opere delle poche donne che si dedicarono all’arte non solo per diletto appartenenti alle generazioni precedenti.
Nell’Ottocento le signore che potessero vantare l’appellativo di professionista si contavano sulle dita di una mano. E non è forse un caso che le poche donne che si potevano fregiare del titolo di artiste complete, perché con regolari anche se non del tutto compiuti studi, appartenessero a ceti sociali elevati.
Parliamo di Adelaide Pandiani (1836-1917), figlia del noto scultore Giovanni che, andata in sposa all’ingegnere luganese Clemente Maraini, «sacrificò serenamente l’arte ai suoi dolci doveri, e per nove anni tenne chiuso lo studio per occuparsi soltanto dei suoi bimbi e della sua casa» e Marie-Louise Audemars Manzoni (1855-1919), della distinta famiglia di industriali orologieri di Arogno che, già madre, frequentava l’Accademia di Brera, oppure Giovanna Castagnola (1869-1942), la quale dopo aver studiato pittura a Bruxelles all’Accademia di Hanau (1887-1889) giunse a Lugano per il matrimonio con Alessandro Béha, conosciuto albergatore che aiuterà nella gestione della sua pensione, e completerà la sua formazione presso Antonio Barzaghi Cattaneo, Gioachimo Galbusera e Raimondo Pereda. Valeria Pasta Morelli (1858-1909) era invece figlia dell’imprenditore Carlo Pasta, promotore della ferrovia e dell’industria alberghiera sul Monte Generoso, e nipote del pittore induniano Bernardino: diplomatasi all’Accademia di Brera, dopo il matrimonio con un alto graduato dell’esercito italiano coltivò la sua passione solo tra le mura dome-stiche come testimoniano le opere conservate dagli eredi sino al 2014, anno in cui furono donate alla Pinacoteca Züst.
Ancora legata all’Ottocento fu la figura di Rachele Giudici (1887-1959), anche se la sua vita si svolse prevalente-mente nel XX secolo. Nonostante avesse compiuto studi artistici, praticò poco la pittura. Oggi come ieri è conosciuta principalmente per lo studio capillare degli abiti ticinesi e fu una donna profondamente legata al passato anche nel suo modo d’essere e di vestire: si narra che abbia chiesto di essere seppellita indossando un costume tradizionale.
Portò avanti la sua ricerca, che considerava come una missione, dagli anni Venti sino alla morte. I suoi interventi sui tessuti furono spesso giudicati dagli storici troppo drastici, dei veri e propri rifacimenti di fantasia con l’intento di rendere i vestiti più belli e più pratici: se ne espongono nella mostra due esemplari.

Nel 1936 Sylva Galli si diplomò alla Scuola professionale di disegno presso la Scuola d’Arti e Mestieri di Lugano, per poi trasferirsi a Friborgo dove studiò al Technicum cantonale, ottenendo l’attestato di docente di disegno nel luglio del 1939.
Nell’autunno dello stesso anno lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la chiusura delle frontiere obbligarono la giovane a tornare a Lugano; in seguito, all’inizio del 1941, si spostò nella più aperta e internazionale Zurigo per completare la sua maturazione ed educazione artistica.
Qui frequentò lo studio di Markus Ginsig (1909-1997), un pittore e grafico zurighese ancorato al naturalismo di matrice elvetica e hodleriana, ma anche l’Akademie Wabel, una scuola privata di nudo e di paesaggio aperta nel 1939 a Zurigo nello studio di Henry Wabel (1889-1981), ottimo rappresentante di un’ampia cerchia di espressionisti svizzeri.
Tra i riferimenti della giovane, la critica ha evocato i nomi di Braque, Cézanne, Renoir, per l’impianto vitale dei nudi, e Van Gogh, ma anche i “Fauves”, Matisse e Derain.

Già sul finire del 1941 Sylva, rientrata a Lugano, «piena di progetti e di idee», accusava i primi sintomi della malattia che l’avrebbe condotta alla morte, ma ebbe ancora il tempo di frequentare la Scuola di figura e di nudo aperta nel 1940, in via Balestra a Lugano, dal pittore Carlo Cotti (1903-1980).
L’evidente, inquieta e quasi urgente necessità di perfezionarsi e di aprirsi a nuove e più profonde esperienze, la volontà di raggiungere una più piena e consapevole maturità artistica, coincisero con la mancata partecipazione, lei vivente, alle usuali manifestazioni pubbliche, nel Ticino come altrove: dichiarava infatti, con una fermezza inconsueta per la giovane età, di non sentirsi matura per affrontare il giudizio del pubblico. Non sorprende quindi che i quadri e i disegni della pittrice furono presentati al pubblico solo post mortem, in poche e scelte occasioni, grazie all’attività di valorizzazione della sua opera condotta dal padre.

Sylva Galli, almeno fino agli Sessanta del secolo scorso, fu anche il simbolo del blando e variegato “femminismo progressista” dell’epoca. La caparbia volontà di diventare pittrice, la scelta di seguire vie nuove (a Friborgo, a Zurigo) pur di raggiungere questo scopo, la sua febbrile libertà artistica ed estetica, l’aura che irradiava da queste sue scelte e dalla sua prematura fine rendevano la sua figura ideale per rappresentare il nuovo ruolo delle donne nella società.

Ma la famiglia Chiesa dedico' altri talenti all'arte

I due fratelli Francesco e Pietro Chiesa, rispettivamente scrittore e pittore, condividevano e appoggiavano gli interessi delle consorti.
Corinna Galli (1878-1947), moglie di Francesco, era attiva nel mondo culturale e autrice tra le altre cose del libretto La Chiesa degli Angeli in Lugano (1932), ma anche della Bibliografia scritta da donne ticinesi o vissute nel Ticino, frutto delle sue ricerche come collaboratrice del marito alla Biblioteca cantonale di Lugano.

Germaine Petitpierre (1890-1963), sposata con Pietro, si dedicava invece al ricamo anche con lo scopo di sviluppare l’artigianato ticinese femminile e di favorire il lavoro remunerato delle ricamatrici, diventato poi per lei anche un’attività artistica in proprio. E non è forse un caso che all’importante mostra tenutasi al Castello di Trevano nel 1937 e organizzata da Pietro Chiesa la rappresentanza femminile raggiungesse le venti unità.
Figura di grande interesse, più che per le qualità prettamente artistiche per il ruolo che ricoprì nella valorizzazione dell’operato femminile, Germaine trascorreva i mesi estivi nella casa della famiglia Chiesa a Sagno, paese tranquillo e discosto. Permeata da ideali sociali, decise di mettere le sue doti di provetta ricamatrice al servizio della comunità femminile creando, agli inizi degli anni Trenta, un’industria casalinga, così da permettere un lavoro in parte accessorio per le donne del posto non più costrette ad «emigrare nelle fabbriche del piano» per una misera paga.
Germaine «dipingeva con l’ago», per usare un termine che ricorre in quegli anni sulla stampa, e i suoi lavori spesso accompagnavano quelli del marito alle esposizioni.

Dinastia di artisti quella dei Chiesa. Non si può dimenticare che il nonno e il padre di Pietro, rispettivamente Francesco e Innocente, furono importanti decoratori e ornatisti. Anche la figlia di Pietro, Simonetta (1920-1956), seguì la strada dell’arte e frequentò l’Accademia di Brera.
Poco davvero si sa della sua vita. Si spense a soli 36 anni. Scarse le opere rimaste con stilemi artistici che ci rimandano alla pittura italiana del suo tempo.
Espose poche volte in patria e all’estero, forse a causa del suo carattere schivo e malinconico ricordato da Eva Tea, che l’ebbe allieva a Brera, in un articolo apparso su “Illustrazione Ticinese” ad integrazione del profilo biografico dedicato all’artista nella retrospettiva che la STBA dedicò a lei e ad altri artisti defunti nel 1958: «Era quieta raccolta, con un’aria ancora infantile, il gesto parco, la voce dimessa. In mezzo all’allegria talora un poco forzata della scolaresca di Brera pareva soffrisse». (03/07/2024-ITL/ITNET)


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