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DIRITTI DEI CITTADINI - XXX RAPPORTO ISTAT - LE DISEGUAGLIANZE: VULNERABILITA' MERCATO DEL LAVORO, DISAGIO ECONOMICO.... CRESCIUTA OCCUPAZIONE BREVE DURATA. POVERA' ASSOLUTA RADDOPPIATA.

(2022-07-08)

Chiaro e netto, anche se sintetizzato nella scarna visione dei numeri del XXX Rapporto Istat, il disagio espresso da ampie fasce della società italiana:  la vulnerabilità nel mercato del lavoro, il disagio economico delle famiglie, il diverso accesso all’istruzione e alle competenze digitali, la presenza di disabilità, personali o di familiari che richiedono assistenza.

Nel tempo è progressivamente diminuita l’occupazione standard, a tempo pieno e a durata indeterminata, mentre sono sempre più diffuse modalità ibride di lavoro. La conseguenza è il peggioramento della qualità complessiva dell’occupazione. La combinazione tra contratti di lavoro di breve durata e intensità e una bassa retribuzione oraria si traduce in livelli retributivi annuali decisamente ridotti. Inoltre, la presenza all’interno della famiglia di individui che si trovano in una posizione di svantaggio rispetto al mercato del lavoro può determinare condizioni di forte disagio economico.

Negli ultimi dieci anni la povertà assoluta è progressivamente aumentata, raggiungendo i valori massimi dal 2005 nel biennio 2020-21, nonostante la messa in campo di misure dirette a sostenere il reddito delle famiglie che ne hanno limitato la diffusione.

I minori, oltre a presentare elevati livelli di povertà assoluta, sono anche quelli che, complice l’effetto della pandemia, hanno visto diminuire le proprie competenze e limitare le attività legate allo sviluppo emotivo e relazionale. Le disuguaglianze nelle competenze digitali si sono ridotte, anche rispetto al resto d’Europa.

La recente accelerazione dell’inflazione rischia di aumentare le disuguaglianze, sia per la diminuzione del potere d’acquisto, più marcata tra le famiglie con forti vincoli di bilancio, sia per le tempistiche dei rinnovi contrattuali, più lunghe in settori con bassi livelli retributivi.

Donne, giovani, residenti nel Mezzogiorno e stranieri si confermano i soggetti più fragili, insieme ai portatori di disabilità e ai loro familiari. 

IN QUESTA SEDE PARTICOLARE ATTENZIONE AI LAVORATORI VULNERABILI

Le trasformazioni del mercato del lavoro hanno portato a una decisa diminuzione del lavoro standard, cioè di quello individuato nei dipendenti a tempo indeterminato e negli autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno. Nel 2021 queste modalità di lavoro riguardano il 59,5% del totale degli occupati.

I lavoratori indipendenti sono progressivamente diminuiti - da quasi un terzo degli occupati all’inizio degli anni ’90 a poco più di un quinto nel 2021 (circa 4,9 milioni) - per effetto del calo di imprenditori, lavoratori in proprio (agricoltori, artigiani, commercianti), coadiuvanti e collaboratori. Il 73,1% di questo segmento di lavoratori non ha dipendenti.

I lavoratori dipendenti a tempo determinato sono raddoppiati dall’inizio degli anni ’90, attestandosi a 2,9 milioni nel 2021. Negli anni è progressivamente aumentata la quota di occupazioni di breve durata: sempre nel 2021, quasi la metà dei dipendenti a termine ha un lavoro di durata pari o inferiore a 6 mesi.

L’occupazione a tempo parziale è passata dall’11% dei primi anni ’90 al 18,6% dell’ultimo anno. Nel 60,9% dei casi il part-time è involontario, componente che ha mostrato la crescita più consistente.

Quasi 5 milioni di occupati (il 21,7% del totale) sono non-standard, cioè a tempo determinato, collaboratori o in part-time involontario. Tra questi, 816mila sono sia a tempo determinato o collaboratori sia in part-time involontario.

Sono lavoratori non standard il 39,7% degli occupati under35, il 34,3% dei lavoratori stranieri, il 28,4% delle lavoratrici, il 24,9% degli occupati con licenza media e il 28,1% dei lavoratori residenti nel Mezzogiorno. La sovrapposizione di tali caratteristiche aggrava le condizioni di debolezza nel mercato del lavoro: la quota di lavoratori non-standard raggiunge il 47,2% tra le donne sotto i 35 anni e il 41,8% tra le straniere.

Una marcata concentrazione di lavoratori non-standard si rileva nel settore degli alloggi e ristorazione e in agricoltura (quattro su dieci), nel settore dei servizi alle famiglie (48,5%), in quello dei servizi collettivi e alle persone (31,9%) e in quello dell’istruzione (28,4%).

Tra le professioni non qualificate (addetti alle consegne, lavapiatti, addetti alle pulizie di esercizi commerciali, collaboratori domestici, braccianti agricoli e simili) la quota di lavoratori non standard arriva al 47,5% mentre si attesta al 29,9% tra gli addetti al commercio e servizi (commesse, addetti alla ristorazione, baby sitter, badanti e simili). Nelle professioni qualificate, scientifiche e intellettuali, i lavori non standard si rintracciano tra ricercatori universitari, insegnanti, giornalisti e professionisti in ambito artistico.

In 4 milioni e 300mila famiglie è presente almeno un occupato non-standard e in 1 milione e 900mila è l’unico occupato: in un terzo dei casi vive solo e in un ulteriore terzo in coppia con figli; solo nel 20% dei casi in famiglia è presente un ritirato dal lavoro.

Ammontano a quasi 500mila gli “autonomi dipendenti”, ossia gli occupati che, pur essendo formalmente autonomi, sono vincolati da rapporti di subordinazione ad altra unità economica che ne limita l’accesso al mercato o l’autonomia organizzativa. Nel 35% dei casi sono lavoratori non-standard, per un totale di circa 170mila occupati.

Negli ultimi dieci anni sono più che raddoppiate le posizioni lavorative in somministrazione, da 167mila (in media mensile) nel 2012 a oltre 390mila nel 2021. Quelle intermittenti, nel 2021, si attestano invece a 214mila. Si tratta di tipologie contrattuali caratterizzate da un’importante componente non-standard: hanno infatti contratti a termine oltre il 70% dei lavoratori dipendenti in somministrazione e la maggioranza degli intermittenti; questi ultimi, inoltre, lavorano mediamente solo 11 giornate al mese.

IL FATTORE RETRIBUZIONI

Circa 4 milioni di dipendenti del settore privato (con l’esclusione dei settori dell’agricoltura e del lavoro domestico) – il 29,5% del totale – percepiscono una retribuzione teorica lorda annua inferiore a 12mila euro (sono a bassa retribuzione annua) mentre per circa 1,3 milioni di dipendenti – il 9,4% del totale – la retribuzione oraria è inferiore a 8,41 euro l’ora (sono a bassa retribuzione oraria). Tra questi, quasi 1 milione percepiscono meno di 12mila euro l’anno e meno di 8,41 euro l’ora.

Solo 6,5 milioni di dipendenti del settore privato (esclusi i settori dell’agricoltura e del lavoro domestico) hanno un’occupazione a tempo indeterminato e full time per l’intero anno. Le loro retribuzioni annuali sono superiori anche a quelle degli altri dipendenti che, pur essendo a tempo parziale o determinato, hanno lavorato in tutti i mesi dell’anno: i dipendenti a tempo pieno e a termine hanno retribuzioni inferiori di quasi il 30%, quelli a tempo parziale e indeterminato di oltre il 50% e i dipendenti a tempo parziale e a termine di oltre il 60%.

I lavoratori a bassa retribuzione oraria (inferiore a 8,41 euro lordi) sono più spesso giovani fino a 34 anni, donne, stranieri (soprattutto extra-Ue), con basso titolo di studio e residenti nel Sud. Se in molti casi si tratta di giovani ancora nella famiglia di origine, non è infrequente che siano genitori soli o in coppia. Sono più spesso occupati nel settore degli altri servizi (come ad esempio, organizzazioni associative, attività di servizi per la persona, riparazione di beni per uso personale e per la casa), in quelli di supporto alle imprese e di intrattenimento, alloggio e ristorazione, istruzione privata.

Le imprese che assicurano le condizioni retributive migliori sono anche quelle dove prevalgono nettamente le posizioni lavorative a tempo pieno e indeterminato: si tratta di un numero esiguo di imprese, meno di 60mila, di dimensioni elevate, che rappresentano circa un sesto delle posizioni; le retribuzioni orarie superano in media i 15 euro.

Gli individui con più basse retribuzioni sono occupati in prevalenza in imprese che offrono condizioni lavorative più svantaggiose, dove basse retribuzioni orarie si combinano con contratti a tempo determinato o part time (circa 700mila imprese per circa il 27% di posizioni). Tuttavia quasi la metà lavora in imprese (circa 420mila, che rappresentano quasi un terzo delle posizioni) caratterizzate dalla coesistenza di posizioni standard, nel complesso prevalenti, e posizioni a tempo parziale o a termine.

La crescita dei prezzi osservata dalla seconda metà del 2021 fino a maggio 2022, in assenza di ulteriori variazioni al rialzo o al ribasso, potrebbe determinare a fine anno una variazione dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo pari a +6,4%. Senza rinnovi o meccanismi di adeguamento ciò comporterebbe un’importante diminuzione delle retribuzioni contrattuali in termini reali che, a fine 2022, tornerebbero sotto i valori del 2009.

LE FAMIGLIE IN DISAGIO ECONOMICO

Dal 2005 la povertà assoluta è più che raddoppiata: le famiglie coinvolte sono passate da poco più di 800mila a 1 milione 960mila nel 2021 (il 7,5% del totale). Per effetto della diffusione più marcata del fenomeno tra le famiglie di ampie dimensioni, il numero di individui in povertà assoluta è quasi triplicato, passando da 1,9 a 5,6 milioni (il 9,4% del totale).

La connotazione delle famiglie in povertà assoluta è progressivamente cambiata dal 2005. L’incidenza è diminuita tra gli anziani soli, si è stabilizzata tra le coppie di anziani, è fortemente cresciuta tra le coppie con figli, tra i monogenitori e tra le famiglie di altra tipologia (famiglie con due o più nuclei o con membri aggregati).

Una dinamica particolarmente negativa in termini di povertà assoluta si osserva per i minori (dal 3,9% del 2005 al 14,2% del 2021) e i giovani di 18-34 anni (dal 3,1% all’11,1%). Nel 2021 sono in povertà assoluta 1 milione 382mila minori, 1 milione 86mila 18-34enni e 734mila anziani (tra i quali l’incidenza nel tempo rimane sostanzialmente stabile e nel 2021 si attesta al 5,3%).

Si conferma e si amplia nel tempo la netta stratificazione della povertà per area geografica, età e cittadinanza. Nel 2021 è in condizione di povertà assoluta un italiano su venti nel Centro-nord, più di un italiano su dieci nel Mezzogiorno e uno straniero su tre nel Centro-nord (il 40% nel Mezzogiorno); tra le famiglie con minori, si trova in povertà assoluta l’8,3% delle famiglie di soli italiani e ben il 36,2% di quelle di soli stranieri.

Dal 2014 l’aumento del numero di famiglie povere si è associato alla sostanziale stabilità dell’intensità della povertà (ossia “quanto sono poveri i poveri”), pari al 18,7% nel 2021.

Le misure di sostegno economico erogate nel 2020, in particolare reddito di cittadinanza e di emergenza, hanno evitato a 1 milione di individui (circa 500mila famiglie) di trovarsi in condizione di povertà assoluta.

Le misure di sostegno hanno avuto effetto anche sull’intensità della povertà che, senza sussidi, nel 2020 sarebbe stata ben 10 punti percentuali più elevata, raggiungendo il 28,8% (a fronte del 18,7% osservato).
 
In assenza di sussidi nel 2020 l’incidenza di povertà assoluta sarebbe stata marcatamente più elevata per le famiglie residenti nel Sud e nelle Isole (+3,4 e +4,5 punti rispettivamente), per quelle in affitto (+5,3 punti) e con stranieri (+3,5 punti), per i single con meno di 65 anni (+3,1 punti), le coppie con figli (+2,4 punti se i figli sono almeno tre) e i monogenitori (+2,8 punti). Infine l’incidenza avrebbe superato il 30% tra le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione (ben 11,1 punti percentuali superiore a quella stimata in presenza di sussidi).

La forte accelerazione dell’inflazione negli ultimi mesi rischia di aumentare le disuguaglianze poiché la riduzione del potere d’acquisto è particolarmente marcata proprio tra le famiglie con forti vincoli di bilancio. Per questo gruppo di famiglie a marzo 2022 la variazione tendenziale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo è risultata pari a +9,4%, 2,6 punti percentuali più elevata dell’inflazione misurata nello stesso mese per la popolazione nel suo complesso.

L’inflazione che colpisce le famiglie con forti vincoli di bilancio riguarda beni e servizi essenziali, il cui consumo difficilmente può essere ridotto. Oltre agli alimentari vi figura la spesa per l’energia, che questo segmento di famiglie destina per il 63% all’acquisto di beni energetici a uso domestico (energia elettrica, gas per cucinare e riscaldamento). Al contrario, tra le famiglie più benestanti oltre la metà della spesa per energia (55%) va in carburanti e lubrificanti.
(08/07/2022-ITL/ITNET)

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