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FISCO - IMPRESE - EUROPA-ITALIA/ STATI UNITI - PRO.SANTORO( MILANO-BICOCCA): SE LA RIFORMA FISCALE PROPOSTA DA TRUMP DIVENISSE CONCRETA POTREBBERO ESSERCI CONSEGUENZE IN EUROPA E NELLA UE"

(2017-06-02)

  L'attuale Presidente degli Stati Uniti Donald Trump al centro dell'attenzione a livello internazionale anche sul fronte fiscale con la riforma fiscale che si propone di attuare. Una proposta che, se attuata, in particolare sul fronte delle imprese potrebbe avere delle conseguenze per l'Europa e per l'Italia.  A farlo presente il Prof. Alessandro  Santoro,  Professore associato di scienza delle finanze presso l’Università di Milano-Bicocca, in un suo intervento sul quotidiano dell'IPSOA.

  "Fino ad oggi gli USA sono l’unico grande Paese che ancora non ha abbandonato il principio della residenza. Un cambiamento potrebbe restringere i margini di manovra fiscale a disposizione dei Paesi europei per attirare gli investimenti delle multinazionali USA. Questo spingerebbe i Paesi europei a farsi (ulteriormente) concorrenza fra di loro per attirare questi investimenti. Infine, la riforma Trump, compresa la parte per le persone fisiche, potrebbe comportare nel breve periodo un notevole incremento del disavanzo pubblico USA e, conseguentemente, attirare ingenti capitali dai Paesi europei.

La proposta Trump di riforma del sistema fiscale statunitense, e in particolare la parte che riguarda la tassazione delle imprese, potrebbe avere importanti implicazioni per l’Europa e per l’Italia. I suoi elementi principali sono i seguenti:

In primo luogo, la riduzione dell’aliquota statutaria di tassazione dei profitti delle imprese, di tutte le dimensioni, al 15%. Va ricordato che, attualmente, la corporate tax statunitense aveva un’aliquota teorica del 35%, sebbene quella effettiva fosse inferiore.

Il secondo elemento di innovazione della proposta Trump è l’applicazione di un’imposta una tantum del 10% su tutti i profitti realizzati all’estero (offshore) e non rimpatriati, integrata, infine, dall’introduzione del principio di esenzione per i futuri profitti realizzati all’estero dalle società USA.

Questi due elementi di innovazione vanno adeguatamente contestualizzati.
La tassazione dei redditi prodotti all’estero da società residenti dipende dall’applicazione del principio della residenza (tassazione worldwide) o di quello opposto della fonte o del territorio (territorial).

Quando si applica il principio della residenza, si considerano in linea di principio tassabili nel paese di residenza anche i profitti realizzati dalle società all’estero. Se, come normalmente accade, questi profitti sono già tassati nel paese dove sono ottenuti, il paese di residenza concede un credito di imposta. Questo credito, a sua volta, può essere calcolato secondo due modalità, per trasparenza, e allora indipendentemente dall’effettivo rimpatrio dei profitti ottenuti all’estero, ovvero in modo differito, e quindi solo al momento dell’effettivo rimpatrio. Nel primo caso, e quindi applicazione del principio di residenza con credito di imposta per trasparenza, si realizza pienamente la cosiddetta Capital Export Neutrality (CEN): per l’impresa residente nel Paese non sussiste alcun vantaggio fiscale derivante dall’esportazione dei capitali all’estero, perché i relativi profitti sono comunque tassati all’aliquota del Paese di residenza.
Nel secondo caso, ovvero applicazione del principio di residenza solo al momento del rimpatrio, la CEN non si realizza pienamente perché alle società che investono e ottengono profitti all’estero viene concesso il beneficio del differimento nell’applicazione dell’aliquota societaria del Paese di residenza.

Gli Stati Uniti sono, fino a quando non verrà applicata la proposta Trump, l’ultimo grande paese che applica il principio di residenza, ma in modo differito. Poiché l’aliquota attuale applicata in USA è molto più elevata rispetto a quella vigente in molti Paesi europei ed extraeuropei (in primis l’Irlanda), le grandi multinazionali USA in questi anni hanno quindi accumulato ingenti profitti all’estero che non hanno mai rimpatriato. Questo spiega la volontà di Trump di ri-attirare tali flussi con un’imposta una tantum ad aliquota ridotta (del 10%) ma in grado di produrre comunque un gettito elevato (per quanto, per definizione, non ripetibile).

Ma l’aspetto più interessante, e nel medio periodo più gravido di conseguenze, della riforma Trump è il passaggio anche negli USA dal principio di residenza a quello della fonte.
Infatti, quest’ultimo principio richiede l’applicazione di una vera e propria esenzione sui profitti realizzati all’estero e, al contrario della worldwide taxation, realizza la CIN (Capital Import Neutrality) anziché la CEN, ovvero tratta nello stesso modo i profitti realizzati da due imprese (di residenza fiscale diversa) in uno stesso territorio.
Tradizionalmente, la CEN veniva considerata più importante della CIN, e quasi tutti i Paesi adottavano il principio della residenza.
Negli ultimi decenni, invece, si è assistito ad un transito generalizzato verso l’adozione del principio del territorio e quindi verso la concessione di esenzioni per i profitti realizzati all’estero. Ovviamente, questa trasformazione è stata spinta dalla globalizzazione e ha consentito alle multinazionali di tutto il mondo di ottenere ingenti profitti grazie alla corsa al ribasso (race to the bottom) dell’aliquota statutaria dentro e fuori dall’Europa (di nuovo, il caso dell’Irlanda è particolarmente significativo).
Come detto, fino alla riforma Trump gli USA erano l’unico grande Paese che ancora non aveva abbandonato il principio della residenza. Questo cambiamento può avere conseguenze molte importanti per l’Europa.

In primo luogo, i margini di manovra fiscale che i Paesi europei hanno per attirare gli investimenti delle multinazionali USA si restringono notevolmente. Mentre, infatti, nella maggior parte dei paesi europei l’aliquota statutaria è inferiore al 35% oggi applicato negli USA, sono ben pochi (e nessuno dei grandi paesi) quelli in cui si situa al di sotto del 15%.

In secondo luogo, questo spinge i paesi europei a farsi (ulteriormente) concorrenza fra di loro per attirare questi investimenti, non solo per attirare gli investimenti produttivi che generano active income ma anche semplicemente per ottenere la localizzazione di holding e di altre entità societarie che generano il c.d. passive income. Questa possibilità è particolarmente appetibile per le multinazionali USA posto che le regole USA sulle CFC (Controlled Foreign Companies), ad oggi, sono ben poco efficaci e nella proposta Trump non ne è previsto alcun cambiamento. Ne consegue che, se la riforma Trump venisse applicata, è facile immaginare che le multinazionali USA condizionino i loro investimenti meramente finanziari (e quindi non produttivi di posti di lavoro e di crescita economica, ma solo di gettito) in Europa all’applicazione di aliquote effettive ancora più basse di quelle attuali.

Sulla scorta dell’esperienza di questi ultimi anni, si può supporre che questo avverrà attraverso un articolato insieme di regimi speciali e di ruling ad hoc che aumenteranno le procedure di infrazione per concessione di aiuti di stato. Ovviamente, esisterebbe un’alternativa, ovvero l’applicazione di regole comuni ai paesi europei, o almeno ad un sottoinsieme significativo di essi, ma, sempre in base all’esperienza degli ultimi decenni questa non sembra essere, purtroppo, un’alternativa realistica.

E le conseguenze preoccupanti per l’Europa non finiscono qui." Afferma il Prof. Santoro, che spiega:

Se la riforma Trump, compresa la parte per le persone fisiche, verrà effettivamente implementata, comporterà nel breve periodo un notevole incremento del disavanzo pubblico, che andrà finanziato con l’emissione di corrispondenti ammontari di titoli del debito pubblico USA. Ciò significa che i tassi di interesse USA, già in tendenziale rialzo, aumenteranno ulteriormente, diventando particolarmente appetibili per gli investitori europei (imprese e famiglie), specie in presenza di una crescita economica ridotta dove le prospettive di profitto ottenuto attraverso investimenti produttivi in loco sono molto ridotte.

Questo deflusso di capitali potrebbe davvero rappresentare un’ulteriore (l’ultima?) minaccia alla sopravvivenza stessa dell’euro e alla tenuta delle istituzioni economiche europee."conclude il Prof. Santoro. (02/06/2017-ITL/ITNET)

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