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ITALIANI ALL'ESTERO - MIN. ESTERI GENTILONI SU MORTE REGENI:" L'ITALIA NON SI ACCONTENTERA' DI UNA VERITA' DI COMODO. L'EGITTO AIUTI I NOSTRI AGENTI"

(2016-02-08)

L'Italia pretende la verità e non accetterà versioni di comodo sulla morte di Giulio Regeni. Per Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, intervistato dal quotidiano La Repubblica - non ci sono ragioni di realpolitik che tengano; i responsabili del delitto devono essere puniti.

Ministro, si arriverà alla verità sull'omicidio?

«Noi abbiamo chiesto e ottenuto che al Cairo funzionari investigativi del Ros e della polizia possano partecipare alle indagini egiziane. Non ci accontenteremo di verità presunte, come già abbiamo detto in occasione dei due arresti inizialmente collegati alla morte di Giulio Regeni. Vogliamo che si individuino i reali responsabili, e che siano puniti m base alla legge».

Affiancare gli investigatori significa mettere sotto tutela quelli egiziani?

«Non credo che la questione vada messa in questi termini. Conosco la professionalità dei nostri investigatori, e se verrà loro consentito di lavorare, come in queste ore sembra possibile, potremo ottenere dei risultati. Ed è questo che il governo italiano pretende».

Il caso del giovane italiano non è l'unico, in Egitto le denunce di sparizioni e abusi sono frequentissime. Il presidente Al Sisi adotta una repressione estrema su ogni voce di dissenso, ma i governi occidentali sembrano restii a farlo notare. Che ne pensa?

«L'Egitto è un nostro partner strategico e ha un ruolo fondamentale per la stabilizzazione della regione. Questo non ci ha mai impedito di promuovere la nostra visione del pluralismo e dei diritti umani. Qui però ci troviamo di fronte a un problema diverso, cioè il dovere dell'Italia di difendere i suoi cittadini e pretendere che, quando essi sono vittima di crimini, i colpevoli vengano assicurati alla giustizia. Questo dovere vale tanto più nei rapporti con un Paese alleato come l'Egitto».

L'Egitto sarà un alleato prezioso anche di fronte al problema Libia. Ma a che punto è la preparazione dell'intervento?

«In Libia si sta lavorando, e credo che il lavoro andrà avanti tutta la settimana, per facilitare il tentativo del premier designato Al Serraj di presentare una lista di ministri e ottenere la fiducia di una maggioranza nella Camera dei rappresentanti. Questo tentativo incontra la difficoltà di mettere assieme gli interessi locali e delle milizie, molto frammentati, e di trovare un accordo sul ministro della Difesa. L'Italia insiste sulla necessità di scommettere sulla nascita di un nuovo governo, e lo faremo anche negli incontri con le parti libiche che stiamo organizzando con il segretario di Stato Usa John Kerry e con altri ministri degli Esteri a Monaco».

In questo modo però i tempi si allungano. Non c'è il rischio che in Libia la presenza di Daesh, il sedicente Stato Islamico, diventi sempre più pericolosa?

«Siamo consapevoli che Daesh si sta consolidando a Sirte e da quella roccaforte può tentare incursioni contro le installazioni petrolifere dell'Est. Ma oggi dev'essere chiaro a tutti che si punta sulla nascita del nuovo governo. Se quest'impresa va in porto, anche il contrasto al terrorismo potrà essere molto più efficace e non affidato solo a sporadiche azioni di forza. Non sottovalutiamo la pericolosità di Daesh, ma rinunciare alla stabilizzazione della Libia per limitarsi ad azioni militari non richieste dal nuovo governo sarebbe un grave errore. Un governo unitario libico è indispensabile anche per collaborare nella gestione dei flussi migratori e per promuovere lo sviluppo del Paese».

Se si arriverà all'intervento, quale sarà il ruolo del nostro Paese?

«L'Italia ha sempre detto e conferma che è pronta a coordinare l'azione degli altri Paesi, sulla base delle richieste che vi verranno rivolte dalla Libia».

Le Forze armate italiane stanno per inviare nuove truppe in Iraq, nei prossimi giorni diventeremo il secondo contingente dopo quello americano. Come mai questo impegno, mentre il ricordo della strage di Nassiriya è ancora così vivo?

«Il nostro impegno va in quattro direzioni fondamentali. La prima: armare e addestrare i peshmerga, ne abbiamo già addestrato 2.500. Poi c'è la formazione della polizia irachena da parte dei nostri carabinieri. Siamo la nazione leader in questo, e stiamo attenti ad addestrare un numero importante di sunniti e uno significativo di donne. Nei prossimi mesi si aggiungeranno la difesa delle maestranze alla diga di Mosul e il nostro contributo alle operazione di salvataggio dei feriti nei combattimenti».

Ma qual è il significato di una presenza cosi massiccia?

«Noi abbiamo investito molto nella sicurezza dell'Iraq, ma il nostro impegno non è solo né principalmente legato al passato. Un grande Paese come l'Italia non può che essere decisivo nella lotta contro Daesh. In questi mesi abbiamo sentito parlare di una ipotetica riluttanza dell'Italia. La verità è che l'Italia non è riluttante, ma sceglie le modalità di una presenza che nelle scorse settimane il segretario di Stato John Kerry ha definito "tremendous", grandiosa». (08/02/2016-ITL/ITNET)

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