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CULTURA ITALIANA NEL MONDO - 70 ANNI 'ENTRATA IN VIGORE COSTITUZIONE: ARTICOLO 9 INTERVENTO PROF.MICHELE AINIS: L'ITALIA NON HA UNA NORMA CHE PROTEGGA L'ITALIANO COME MOLTE NAZIONI"

(2018-12-12)

  Correva l'anno 1948, in Italia il I° Gennaio entro' in vigore la Costituzione della Repubblica italiana.
70 anni dopo numerose le iniziative celebrative. Alcune di queste particolarmente pregnanti per il dibattito in corso tra gli italiani in Italia come all'estero.

  Ed è proprio all'estero che il dibattito sulla cultura italiana, lingua ed arti applicate, quale elemento distintivo della Nazione, assume un interesse ed un'importanza fondamentale.

Con Michele Ainis ***, in questa sede ripercorriamo i prodromi dell'affermazione dell'art. 9 della Costituzione Italiana


    La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica [cfr. artt. 33, 34].

      Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

La riflessione di Michele Ainis, giurista e costituzionalista italiano, co-autore, tra l'altro, del libro la Costituzione e la Bellezza, con il critico d'arte Vittorio Sgarbi,è importante non solo per l'ambito Costituzionale ma anche per la trasversalità, per la
interdisciplinarità, con la quale affronta l'argomento e  di cui  "c’è molto bisogno", afferma lo stesso Professor Ainis, il quale  ha pronunciato l'intervento che segue nell'ambito del Corso Scuola del Patrimonio, alla Fondazione Scuola dei Beni ed Attività Culturali, insediata al Ministero dei Beni ed Attivita' Culturali, a Roma.

Il Corso si rivolge, principalmente, ai giovani delle scuole superiori ed utilizza, pertanto, un linguaggio chiaro, adatto anche a quanti sono lontani da tempo dall'Italia o non padroneggiano perfettamente la lingua italiana appresa all'estero.

Una postilla: nell'intervento si fa cenno all'unica reale e concreta modifica delle Costituzione: l'art.48 relativo al voto in loco degli italiani all'estero.

Ritornando a Michele Ainis, "venti anni fa' fece parte di una commissione – la Commissione Cheli – che con un anno di lavoro e con tanta fatica disegnò il Ministero  dei  Beni  e  delle  Attività  Culturali, che poi è stato molte volte ridisegnato (perché anche questa è una delle malattie italiane, quella di smontare il mondo ad ogni legislatura, quando invece  avremmo bisogno di stabilità normativa per procurarci una maggiore certezza dei nostri rapporti giuridici).

Ma lasciamo  la parola a Michele Ainis

"Ogni Costituzione è uno specchio in cui si riflettono un popolo, la storia di un popolo, le tradizioni di un popolo, ciò che lo
distingue, l’identità. Per questo quando si parla (e si parla ciclicamente) di riforme costituzionali e c’è quello che ti dice il modello francese, quell’altro che vuole un parlamento in salsa inglese, sono  approcci sbagliati perché – diceva Montesquieu – le leggi dipendono dalla storia, dalla cultura di un  popolo, e persino dalla geografia e persino dal clima.   
Il nostro clima è segnato da quello che è successo nel Rinascimento, da quello che è successo dopo,  da quello che si conserva qui, cioè da un'attitudine, che forse ancora ci distingue nel mondo, a creare  e a custodire la bellezza, qualunque cosa significhi questa parola, che è una parola anch’essa polisensa. 

E quindi l’articolo  9 nasce perché c'era questo prima, e però nasce per caso: non nasce con una  specifica intenzione in Assemblea Costituente e adesso proverò a raccontare così, per pillole, la storia  del dibattito in Assemblea Costituente sull’
articolo 9. Nasce per caso, e io sono abbastanza convinto che le cose importanti della nostra vita nascano per caso: io ho fatto legge per caso e ho fatto poi molte  altre cose per caso e quello che dico, quando c’è un ragazzo che mi dice che da grande vorrebbe fare  l’astronauta o il palombaro, è di provarci; ma in realtà quello che è importante è riconoscere che quel
treno che sta passando, e magari passa una volta sola e passa veloce, è il tuo treno e bisogna prenderlo, cioè è l’occasione che spesso determina le nostre vite.

  E comunque questo è ciò che è accaduto rispetto  all’articolo 9 che pure aveva due padri illustri, perché la prima stesura di questo articolo risale al 18 ottobre  del  1946,  nella  prima  commissione  della  Commissione  dei  75:  l’Assemblea  Costituente  demandò a una commissione composta in modo proporzionale tra i gruppi politici che erano presenti in Assemblea Costituente di redigere un progetto di Costituzione. Quella commissione dei 75 si  articolò in tre sottocommissioni e una di queste sottocommissioni fu appunto quella che elaborò la  prima versione del futuro articolo 9

  C’è anche un “gemellino”, un “cuginetto” dell’articolo 9 ed è l’articolo  33  che  dice,  nella  sua  versione attuale,  «l’arte  e  la  scienza  sono  libere e  libero  ne  è l'insegnamento»: libertà della cultura.
   
L’articolo 9 dice, nella sua versione attuale: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». I genitori dell’articolo 9 si chiamavano Aldo Moro e Concetto Marchesi, due illustri personaggi della nostra storia; uno – Aldo Moro – democristiano che poi fu Presidente del Consiglio e finì come sappiamo, e l’altro – Concetto Marchesi – piuttosto dimenticato oggi, ingiustamente, grande latinista
e antifascista che aveva rischiato e pagato di suo, persona di grande cultura come ce n’erano in quella Assemblea, pur essendo l’Italia in quegli anni vessata da un analfabetismo di gran lunga superiore a quello attuale.

La prima versione di questo articolo diceva così: «I monumenti artistici, storici e naturali del Paese costituiscono patrimonio nazionale in qualsiasi parte del territorio della Repubblica e sono sotto la protezione dello Stato»: quindi tutela, il primo dictum sulla tutela, però nessun accenno invece alla libertà della cultura. 

Questa prima formula viene immediatamente bombardata, attaccata da altri costituenti con l’accusa di essere superflua; ci si chiedeva infatti che bisogno ci fosse di mettere nero su bianco l’ovvio, e cioè che si dovesse tutelare il patrimonio artistico, tant’è che venne in un primo tempo messa da parte; poi fu un socialista, Lombardi, a riproporre questa formula, ma c’era sempre questa diffidenza rispetto a un pleonasmo, a una cosa che sembrava inutile scrivere.

Perché poi l’intenzione di scrivere una norma apposita supera questo fuoco di fila di obiezioni e di perplessità?

Perché c’è la preoccupazione che le Regioni, che si stavano istituendo (quando la Costituzione veniva scritta l’Italia era uno stato unitario e forse la principale novità che venne introdotta a quel tempo fu il decentramento regionale, cioè la creazione di Regioni dotate di poteri legislativi oltre che amministrativi) e sarebbero state competenti su cose la cui competenza era in precedenza dello Stato, avrebbero potuto – si temeva – compiere degli scempi se fosse stata loro assegnata la competenza anche a legiferare in materia di beni culturali. Ci fu dunque la volontà di mettere un argine a questa possibilità, anche a seguito delle preoccupazioni espresse tramite un ordine del giorno dall’Accademia dei Lincei, con lo scrivere che la tutela spetta alla Repubblica.

Perché alla Repubblica e non allo Stato?

Per lasciare impregiudicata la questione regionale, che in quel momento non era ancora stata definita, attraverso un termine più comprensivo come Repubblica. Anche l'Accademia di San Luca aveva depositato in Assemblea Costituente un
ordine del giorno e c’erano stati degli altri interventi simili: per esempio Di Fausto temeva che se le Regioni avessero ottenuto delle competenze in tale materia, alla tutela sarebbe potuta subentrare  l’anarchia.

Quindi la prima molla che determina l’ingresso dell’articolo 9 nella Costituzione è la paura, la paura rispetto al nuovo, a uno scenario nuovo che si poteva configurare attraverso la discesa in  campo delle Regioni nel palcoscenico culturale.

Per quanto riguarda invece tutto l’universo di problemi relativi alla promozione della cultura e della ricerca scientifica non ci fu dibattito (dei problemi invece ci sono e adesso proveremo brevemente ad affrontarli): solo un costituente, Antonio Pignedoli, sostenne la necessità di porre un argine alla fuga dei ricercatori dall'Italia (quanto al doloroso calvario degli scienziati, passati 70 anni, le cose non è che siano cambiate molto, forse sono pure peggiorate). 

Nel progetto di Costituzione entra a un certo punto anche quello che sarà poi l’articolo 33, ripreso dalla Costituzione di Weimar del 1919, che fu molto presente ai costituenti – Costantino Mortati le dedicò un aureo libricino – e che conteneva una norma in difesa della libertà dell’arte, anche se la prima codificazione  della  libertà  dell’arte  e  della  scienza  risale  alla  fine  del  ?700  quando  nascono  le costituzioni rivoluzionarie in Francia.

Ciò nonostante in Assemblea Costituente, superata la fase istruttoria nella Commissione dei '75, si ripetono le critiche e ne cito ora alcune: il socialista Longhena, che fece registrare una serie di interventi nel dibattito costituente anche su altri argomenti, disse che l’aggiunta delle libertà culturali (cioè l’articolo 33, libertà dell’arte e della scienza) al catalogo dei diritti fondamentali avrebbe significato la codificazione di piccole cose intollerabili in un progetto di  Costituzione.

Qualche giorno dopo, nell’aprile del 1947, il costituente Paolo Rossi disse «l’arte e la scienza sono la libertà stessa nella sua forma più alta, dire che arte e scienza sono libere è come dire che la libertà è libera», quindi ovvio, inutile, pleonastico, ridondante.

Un altro socialista ancora, Treves, disse che l’espressione artistica e l’espressione scientifica «si deprimono e si umiliano se ne faremo oggetto di una specifica garanzia costituzionale».

Il democristiano Clerici – faccio questi esempi per far vedere il fuoco di fila di critiche che ci fu a quell’epoca – disse «questo articolo 9  è un enunciato superfluo, inutile e alquanto ridicolo, anzi è tale da togliere prestigio alla Costituzione che
andremo a scrivere». 
È inutile perché – vivaddìo! – la Costituzione afferma cose che possono essere controverse, ma che è necessario politicamente affermare come una novità, come una conquista, non cose che sono pacifiche, altrimenti, se dovessimo mettere nella Costituzione tutto ciò che è evidente e pacifico, per quale ragione non dovremmo dire che la lingua che usiamo è la lingua italiana e che usiamo le lettere latine e le cifre arabe? Un articolo dunque da abolire per la serietà stessa dei nostri lavori. 

Tenete conto - fa presente Ainis -  che l’Italia poi in effetti non ha una norma che protegge l’italiano, come hanno invece i
francesi – molto vigili su questioni simili – e metà degli Stati europei, che hanno nella loro Costituzione una norma apposita.

L’Accademia della Crusca da circa vent’anni e forse più chiede una modifica costituzionale per aprire l’ombrello della Costituzione anche sulla lingua: che in Italia si parli l’italiano non era quindi questione ovvia come sembrava a Clerici, anche perché l’italiano sta diventando una  lingua morta e se ne occuperanno un giorno gli archeologi delle lingue. 

Rispetto a questo fuoco di fila la difesa viene da Concetto Marchesi che dice: «l’arte e la scienza sono per se stesse fantasmi e sono mere astrazioni e non sono per se stesse né libere né serve e però esistono nelle manifestazioni scientifiche e artistiche del genio individuale, esistono nelle opere di arte e di  scienza e così possono essere colpite da coazione e così possono non essere libere». Dice insomma  che non esiste l’Arte, non esiste la Scienza, però esiste l’opera d’arte, esiste la teoria scientifica che  possono essere – quelle sì – castigate, censurate, e punite, quindi, se possiamo discutere se l’arte e la  scienza possano essere libere e incoercibili, possono invece non essere liberi gli artisti e i ricercatori.

Riecheggiava nella memoria dei costituenti il Minculpop, la censura fascista, quello che era appena accaduto, e questa memoria fresca fu il lievito non soltanto per l’articolo 9, ma anche per varie altre norme  costituzionali  concepite  come  norme  oppositive  rispetto  a  un’esperienza  circa  la  quale  i costituenti dissero: «mai più!». Però queste critiche, che noi oggi giudichiamo fuori luogo, infondate, e per fortuna – diciamo – ricacciate  indietro,  nascevano  da  una preoccupazione  che  era  una preoccupazione giusta, cioè quella di non sovraccaricare il testo costituzionale con elementi ridondanti.

In 18 mesi i costituenti scrissero una Costituzione che noi da 30 anni, ma ormai direi da 40, cerchiamo di riformare – nel 1979 Bettino Craxi scrisse un famoso articolo sull’ Avanti!  annunciando la grande riforma delle istituzioni e dopo 40 anni non è stata mai fatta, con l’eccezione di una piccola riforma del 2001 (il voto in loco degli italiani residenti all'estero-ndr) secondo molti (tra i quali il prof. Michele Ainis) peggiorativa – e però loro, invece, in 18 mesi ci riuscirono.  C’era un comune sentire, una fraternité , che derivava da una comune esperienza di vita molto faticosa, la guerra, l’antifascismo, che aveva affratellato una generazione e le aveva consentito di superare delle distanze molto più rilevanti rispetto a quelle che ci sono tra i partiti di oggi perché, appunto, era stata temprata da un comune destino.

Quella generazione, che in 18 mesi riuscì a ultimare un’opera che invece in 40 anni noi – e meno male – non abbiamo rifatto, si interrogò molto sul senso del suo lavoro, si interrogò molto sull’economia del suo lavoro, sull’economia del segno, su ciò che avesse dignità per potere entrare in una Costituzione, e questa è una lezione che andrebbe anche ricordata. 

Aggiungo soltanto che alla fine, dopo che l’articolo 9 era stato scritto ed era stato approvato, ci fu anche  un  tentativo  di  “cacciarlo  dalla  finestra”  perché  su  quel  testo  lavorò  un  comitato  di coordinamento che – possiamo dire – cercò quasi di liberarsene, ma poi non lo fece e addirittura lo iscrisse  tra  i  Principi  fondamentali,  mentre  prima  l’articolo  9 non  era  collocato  nei  principi  fondamentali (i primi 12 articoli), ma altrove per un'assonanza con altre norme: quindi, di nuovo, un
elemento casuale che determina addirittura la collocazione dell’articolo  9  tra i super valori della Costituzione italiana, che sono appunto i principi fondamentali.

  La Costituzione si compone di tre parti:  principi  fondamentali,  parte  prima  - diritti  e doveri,  e  parte  seconda  –  ordinamento  della Repubblica, che è l’architettura dello Stato italiano. L’articolo  9 nasce dunque come un neonato sofferente, nasce settimino, e non ha una grande salute dopo la nascita perché viene immediatamente sottovalutato,  intanto  dalla  dottrina  dei  costituzionalisti:  il  primo  commentario  alla  Costituzione (Baschieri, Bianchi d’Espinosa, Giannattasio), che venne dato alle stampe nel 1949, cioè l'anno successivo all’entrata in vigore della Carta costituzionale, ritiene infelice la forma dell’articolo  9 e stonata la sua collocazione nel grembo dei Principi fondamentali, giudizi che si ripetono anche nel  commentario sistematico alla Costituzione italiana pubblicato l’anno dopo a cura di Calamandrei e nell’opinione di Vezio Crisafulli, grande costituzionalista e fondatore della scuola romana di Diritto costituzionale, che ebbe un grande merito a proposito di cui occorre aprire una piccola parentesi.

La Costituzione, una volta approvata, rischiò di essere messa in frigorifero per i secoli a venire attraverso una operazione interpretativa, pseudo-interpretativa, avallata però dalle magistrature superiori dal Consiglio di Stato, dalla Corte di Cassazione, dove sedevano alti magistrati che avevano fatto carriera durante il fascismo (e che non erano stati epurati perché l’epurazione fu una farsa) e che quindi avevano non soltanto delle idee molto conservatrici, ma vedevano entrare in vigore un testo che faceva a cazzotti con il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931; un testo che affermava delle libertà in un ambiente normativo che sostanzialmente negava queste libertà, e quindi delle due l’una, o prevale l’uno o prevale l’altro. E allora si cercò di tagliare le unghie alla nuova Costituzione riconoscendole un valore programmatico, cioè un programma per il legislatore futuro – e l’ articolo 9 è una tipica norma programmatica: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura» è una cosa che dovranno fare i posteri – e si disse in sentenze che occorreva l’ interpositio legislatoris, cioè che fossero adottate delle leggi per dare corpo e gambe alla Costituzione, praticamente tutta, salvo alcune
norme di immediata applicazione (per esempio l’articolo 27 dice che è vietata la pena di morte e lì non occorre una legge: se qualcuno proponesse una legge che introduce la pena di morte per chi come me chiacchiera troppo, ci sarebbe l’articolo 27 a difendermi). Però per tutto il resto si sostenne la necessità  dell’interpositio  legislatoris, un’interpretazione che avrebbe quindi depotenziato la Costituzione e  consegnato a chissà quando la sua attuazione perché nel frattempo si apriva la stagione del centrismo,  la Democrazia Cristiana vinceva le elezioni del 18 aprile 1948, Scelba era Ministro dell’Interno,
insomma non tirava un’aria molto favorevole alle nuove libertà costituzionali. Crisafulli – una delle poche volte in cui il nostro lavoro di professori ebbe anche un riscontro civile – scrisse dei saggi, raccolti poi in un volume del 1951.

La  Costituzione  e  le  sue  disposizioni  di  principio, con i quali rovesciò questo tipo di tecnica e disse che non è vero che la Costituzione si rivolge al legislatore soltanto, ma che essa si rivolge almeno al legislatore. Ma si rivolge anche ad altri, per esempio ai giudici,  a  tutti  i  giudici,  perché  a Costituzione contiene dei principi, e i  principi  sono veicolo privilegiato di interpretazione.

Quando io interpreto il codice della strada o il regolamento del mio condominio, devo cercare di offrire l’interpretazione più coerente rispetto ai principi, e i principi si trovano per esempio nei codici ma si trovano soprattutto nella Costituzione. E attraverso questo, i giudici più giovani delle magistrature inferiori  cominciarono  ad  applicare  direttamente  la  Costituzione  e  quindi  fu  scongiurato  questo tentativo; però lo stesso Crisafulli, che ebbe questo merito non soltanto culturale ma anche storico, escludeva dal suo discorso l’articolo 9, ritenendolo una pseudo-disposizione, una chiacchiera che non vuol dire nulla.

Simili giudizi di sottovalutazione si ripetono in alcuni libri (Spagna Musso e altri) che vengono pubblicati negli anni Cinquanta e Sessanta e bisogna aspettare i famigerati anni Settanta per scoprire che esiste questo articolo  9  : intanto nel 1974 Spadolini istituisce con un decreto legge il Ministero (che prima era senza portafoglio e ora ha un portafoglio, mi auguro gonfio ma non so quanto lo sia), fondamentale struttura della nostra amministrazione pubblica.

  Succedono però anche altre due cose negli anni Settanta: nasce, non solo in Italia ma in tutto il mondo, il movimento ambientalista perché ci si accorge che la Terra su cui poggiamo i piedi è un bene deperibile, è un qualcosa che può  essere messo a repentaglio dall’inquinamento e allora, rispetto a tutto questo, il problema diventa trovare un ancoraggio costituzionale rispetto a questa nuova esigenza di proteggere l’ambiente. 

Che cos’è l’ambiente?

  È il territorio così come è inciso dall’azione dell’uomo, una relazione quindi tra  la natura e l’uomo, questo è più o meno l’ambiente; la Costituzione parla di paesaggio, «La Repubblica [...] tutela il paesaggio», perché quando i costituenti scrivono hanno presente la legge Bottai sulle bellezze naturali e la legge Bottai, quella sulle bellezze naturali e anche quella sulle cose d’arte (1939), era segnata – ciascuno di noi è un uomo situato, diceva Camus, ciascuno di noi è figlio del suo tempo – dall’idealismo crociano, da una concezione estetizzante di ciò che meritasse di essere tutelato.
Paesaggio, secondo tale concezione, è il belvedere - uno scorcio di particolare bellezza - non è l'ambiente. Però la parola paesaggio è una parola mobile, come spesso sono le parole che troviamo in Assemblea  Costituente,  e  il  grande  giurista  fiorentino  Alberto  Predieri  scrive  negli Studi  per  il ventesimo  anniversario  dell’Assemblea  Costituente  (pubblicati  nel  1969)  e  deposita  una  diversa interpretazione della parola paesaggio secondo cui il paesaggio è la forma del Paese, e la forma del Paese è l'ambiente: l’ articolo  9, quindi, può ben essere il riferimento che ci serve per la tutela dell’ambiente.
Questa interpretazione viene poi anche condivisa dalla Corte costituzionale ed è oggi un comune patrimonio.

Sempre negli anni Settanta - all’inizio degli anni Settanta - altro motivo di riscoperta dell’articolo 9  è la nascita delle Regioni, che erano state tenute in quarantena per 22 anni. Nel 1970, con la legge finanziaria, nasce un ordinamento regionale e quindi anche gli statuti regionali: ogni Regione ha uno statuto che è una sorta di mini-costituzione della Regione in cui si elencano i valori identitari per la comunità regionale, composta da quanti sono cittadini italiani residenti nella Regione, poi c’è la Giunta regionale, speculare al Governo nazionale, e il Consiglio regionale, speculare al Parlamento nazionale.

Gli statuti si aprono con una serie di disposizioni di principio e queste disposizioni allargano lo spettro delle competenze regionali al campo della cultura tout court : alle Regioni, secondo la Costituzione per come era scritta in quel momento (siamo negli anni Settanta) e in particolare secondo l’articolo 117 di allora (che poi nel 2001 è stato riscritto), era a quel tempo assegnata soltanto una competenza in materia di musei e di biblioteche di enti locali, mentre gli statuti regionali dettero mandato alle Regioni di intervenire  nel  campo  del  teatro,  della  musica,  del  cinema,  della  ricerca  tecnica  e  scientifica, concependo  la  cultura  come  elemento  di  progresso  per  le  comunità  regionali,  come  obiettivo preminente della Regione (riferendomi per esempio allo statuto dell'Abruzzo), assicurando sostegno alle associazioni culturali, facendo e dichiarando insomma molto di più di ciò che l’articolo 117 garantiva alle Regioni di poter fare.

Si pone dunque un problema di sconfinamento, di una competenza che le Regioni non hanno, un problema che diventa contenzioso davanti alla Corte costituzionale e che si risolve a favore delle Regioni, non perché l’articolo 117 dica più di ciò che dice, ma perché c’è l'articolo  9  che dice che la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico, e la Repubblica non è solo lo Stato, ma lo Stato, le Regioni e gli Enti locali: quindi ciò che le Regioni non potrebbero fare in base all’articolo 117 “vecchia stesura” possono però farlo perché l’articolo 9 ha una maglia più larga. 

Alla fine dunque la parola Repubblica, che – se vi ricordate – nel 1948 venne scelta proprio per escludere le Regioni per paura che potessero intervenire sulla tutela dei beni culturali, diventa – eterogenesi dei fini – la chiave che permette alle Regioni di intervenire nel campo della cultura. Un episodio della storia dell’articolo 9 caratterizzato dalla casualità, da un lato, e dall’altro da una capacità di scrivere un testo con poche parole, perché in fondo più scrivi e più ti leghi: io su questo ho una piccola esperienza avendo diretto, per non so quanti decenni, una scuola che forma degli scrittori delle leggi (quella dell’ISLE) e credo di aver capito che, per scrivere bene un qualunque testo, bisogna, dopo aver scritto, cancellare avverbi, giri di frasi. Per i testi, più in generale, di solito la prima espressione che ti rimbalza nella testa è la più banale, la più trita, la più logora dall’uso – e le espressioni logorate dall’uso sono quelle che poi subiscono una sorta di azzeramento semantico e non vogliono dire più nulla – e quindi bisogna cercare, accostando le parole, non dico di sorprendere come fa il poeta, ma di
avere un’agilità di linguaggio che si può ottenere solo eliminando il sovrappiù. 

I costituenti lo fecero e questo ha consentito alla Costituzione anche di scavalcare delle stagioni della storia molto diverse - anche adesso se ne è aperta una molto differente da quelle che l’hanno preceduta e in futuro accadrà di nuovo - ma pensate agli americani: loro hanno una Costituzione che parla degli indiani, perché nel 1787 c’erano gli indiani, quelli che vediamo nei film, ma l’hanno cambiata. La vetustas,  la capacità di durare nel tempo, e l’antichità di una Costituzione restituiscono a quella Costituzione prestigio e la fanno diventare elemento di riconoscimento: essa viene riconosciuta più
agevolmente dal popolo al quale si rivolge.

I costituenti però non soltanto non volevano scrivere l’articolo  9  e poi lo scrissero, e non soltanto ebbero lo stesso atteggiamento rispetto all’articolo 33 (quello della libertà culturale) ma, una volta scritti, non si posero affatto il problema di come si conciliasse la promozione della cultura con la libertà della cultura, cosa che invece costituisce un problema.

  Perché se tu Stato, Regione o Comune devi promuovere la cultura, allora devi selezionare a quali settori culturali destinare i fondi. Se ho da spendere un euro a che cosa lo destino? Lo destino alla musica o lo destino al teatro? O faccio a metà? E quanto destino invece al cinema e quanto alle arti figurative? E una volta che ho deciso per la musica, a quali generi usicali? Il jazz, la musica  dodecafonica? E poi a quali artisti?

Insomma, l’articolo  9 presuppone una politica culturale, un disegno, una strategia di intervento, e una messa a fuoco dei fini che io voglio perseguire, dei mezzi che dovrebbero essere coerenti con i fini che perseguo, e delle scelte che devo fare. 
Quando faccio delle scelte lo statu quo cambia, ovviamente, perché altrimenti non ho fatto nulla, e se intervengo, a qualcuno rinforzo i muscoli e qualcun altro magari li ha poi più stanchi. L’articolo  9  presuppone una politica culturale, presuppone che venga alterata la spontanea evoluzione della vita culturale, che è una vita polifonica in cui tutte le persone di cultura, e poi gli artisti, e poi i ricercatori si muovono, ma non si muovono più – diciamo – da soli a giocare in un campo, ma c'è qualcuno che gli passa la palla; e però questo determina una frizione con l’articolo 33 che parla di libertà della cultura
e cioè di una libertà negativa, di una libertà dallo Stato: se io esercito la libertà di parola (e libertà di parola è garantita nella Costituzione italiana) significa che nessun potere pubblico deve interferire mentre io parlo, che posso dire ciò che mi pare (naturalmente salvo che non insulti il prossimo), ciò che io pretendo; quindi, esercitando la libertà di parola, è un obbligo di non intervento, di omissione dall’intervento, un laissez faire. 
Mentre nel campo della cultura, se io ho diritto alla promozione culturale, ho diritto e richiedo un intervento e si crea dunque una situazione un po’ schizofrenica mettendo insieme queste due norme, anche perché poi Theodor Adorno, filosofo molto caro alla generazione del ?68, diceva che la cultura non tollera di essere pianificata perché altrimenti muore, che c’è una scintilla nelle attività culturali che viene spenta se costretta. Lui faceva l’esempio delle feste culturali in Baviera, mi pare, il cui calendario a volte viene costruito spostando la festa a un giorno successivo rispetto a quello in cui cadrebbe per consentire al turista di visitare una sera un paesello, la sera dopo un altro paesello: non so se voi facciate lo stesso quando il vostro compleanno cade di venerdì e lo festeggiate di sabato, perché il venerdì è un giorno complicato, ma se lo fate - questa è la mia opinione - fate malissimo perché la festa – diceva Adorno e io sono d’accordo – va festeggiata quando cade. Se tu la muovi, la festa perde il suo carattere di irripetibilità, la festa è un unicum , è una cosa irripetibile, non posso
festeggiare  capodanno  il  18  marzo  perché  mi  viene  bene,  perché  torno  dalla  settimana  bianca. Capodanno è Capodanno.   

Un ulteriore elemento di frizione tra promozione della cultura e libertà della cultura deriva dal fatto che promozione significa dare quattrini e c’è un modo molto più efficace del bastone per condizionare il lavoro degli artisti e degli scienziati ed è la carota, e il fascismo ne fece ampia applicazione. C’era un poeta francese di stornelli che visse al tempo della Restaurazione che diceva «Io non vivo che per scrivere dei canti; ma se voi, Monsignore, mi togliete il posto, scriverò dei canti per vivere»: l’artista insomma, nei secoli passati, ma tutto sommato anche più o meno adesso, è condizionato nel suo lavoro:
una volta lo era da una corte, da un mecenate, e se il committente è lo Stato e lo Stato ti toglie – diciamo  – l’ossigeno perché tu fai un lavoro sgradito al potere pubblico, oppure ti pompa ossigeno perché tu sei un artista di corte, è evidente che ci siano degli elementi di frizione, ma io penso che un modo per risolverli ci sia.
Pensate al fatto che ci sono dei segmenti dell’esperienza culturale che hanno bisogno di molti mezzi per potersi esprimere, come la ricerca di base (pensate al grande acceleratore del CERN di Ginevra) che richiede investimenti che difficilmente dei privati possono fare. Tralasciando il fatto che oggi esistano grandi entità private con bilanci più grossi di quelli degli Stati: Google, Facebook, Apple.
Generalmente ci sono delle esperienze che richiedono dei mezzi finanziari che normalmente i privati non  possono  erogare,  oppure  ci  sono  delle  esperienze,  delle  correnti  artistiche,  o  delle  correnti scientifiche che sono fuori dai circuiti del mercato; una volta si parlava di arte d’avanguardia, ora non so se sia caduta in disuso questa espressione, ma certo quando si rompe coi linguaggi dominanti si fa più fatica. Io sono un professore universitario, quindi appartengo a un ambiente che ha il massimo di conservazione  e  di  resistenza rispetto  al  nuovo,  e  tutte  le  nuove  scienze vengono  guardate  con  diffidenza; a me è capitato due volte di essere relatore in un convegno di ufologia: ora, è chiaro che ci sono molti nani e molte ballerine intorno a quest’ambito, ma il fatto che ci siano molti ciarlatani di per sé non dimostra che tutto il firmamento e i miliardi di stelle esistenti ci siano solo perché noi li guardiamo – e anzi alcuni nemmeno li possiamo vedere. Molto più plausibile è che ci siano questi UFO e quindi che l’ufologia probabilmente meriti degli studi, ed è invece una sorella tenuta in disparte dalle altre discipline scientifiche perché è una nuova scienza: succede sempre.

Io – sarà un concetto un po’ illuministico – credo che il ruolo dello Stato debba essere quello di rendere effettiva la libertà degli artisti e degli scienziati promessa dall’articolo 33: libertà come liberazione, liberazione dai condizionamenti, dalle strettoie che derivano dal mercato oppure che oggettivamente si accompagnano ad alcune discipline; e quindi l’intervento dello Stato dovrebbe supplire a delle carenze che derivano dalla composizione del mercato, che è fatto per vendere e dovrebbe avere come fine ultimo quello di alimentare il pluralismo, perché anche nella cultura come in altri campi – a me
capita da due anni di essere membro dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – la concorrenza è un valore costituzionale e la concorrenza serve per fare emergere i meriti, quelli veri.

Però, per far emergere i meriti, io devo dare delle chance a chi altrimenti non ne avrebbe, che è la ragione per cui ad esempio il Presidente Johnson, che prese il posto di Kennedy, battezzò il primo piano di azioni positive negli Stati Uniti
affirmative actions  (noi oggi le chiamiamo pari opportunità), motivandolo con un esempio: supponiamo che un uomo abbia trascorso molti anni in catene, con una bella palla al piede e quindi stretto e fermo in un angolo di una cella, che venga liberato e condotto ai nastri di partenza di una gara e che gli si dica di fare i cento metri insieme a uno alto, muscoloso, e che si è allenato per 3 mesi; Johnson si domandava se così la gara sarebbe stata equa e no, non lo sarebbe stata, a meno di non dare dieci metri di vantaggio in più a quello che parte con un handicap di cui lui non ha colpa. 

Il concetto è sempre quello: perché il pluralismo sia effettivo, perché la concorrenza sia effettiva, occorre  che  chi  ha  incolpevolmente  un  handicap  venga  messo  nella  condizione  di  superare quell’handicap, che è la missione dei poteri pubblici, una missione poi illuminata da un’altra norma costituzionale, l’articolo 3 comma 2: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo  della  persona  umana  e  l’effettiva  partecipazione  di  tutti  i  lavoratori  all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questa uguaglianza di fatto è necessaria, ma è un obiettivo che non si raggiungerà mai: il miglior Ministro del mondo, il più formidabile Ministero del mondo sarà comunque sempre costretto a una rincorsa, perché questo riguarda in generale il senso dei valori costituzionali e delle promesse costituzionali di libertà, di uguaglianza, di solidarietà – quella vecchia fraternité  di cui parlavano i francesi – perché la vita ogni giorno determina nuove disuguaglianze, determina nuove condizioni di libertà o di minore libertà e quindi noi siamo, come esseri umani, costretti sempre alla fatica di Sisifo, che risaliva una collina con un masso e quando arrivava in cima il masso rotolava a valle e lui doveva ricominciare la salita. 

I valori costituzionali indicano una meta. Impiegando un’altra metafora sono come l’orizzonte che non possiamo afferrare ma che non possiamo fare a meno di guardare, di sollevare lo sguardo verso di esso: questa tensione della volontà e dell’azione è ciò che la Costituzione, anche rispetto alla cultura, alla promozione della cultura e alla libertà della cultura, ci chiede.
E questo è il senso profondo dell’ articolo 9 e del lavoro che tutti noi dobbiamo fare. 

Trascrizione dell’intervento di Michele Ainis del 19.10.2018
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Michele Ainis (Messina, 6 gennaio 1955) è un giurista e costituzionalista italiano
Si laurea in giurisprudenza nel 1978 presso l'Università di Messina, sotto la guida del costituzionalista Temistocle Martines.

A Messina comincia anche la sua carriera di docente universitario come ricercatore alla facoltà di Scienze politiche, per poi trasferirsi all'università La Sapienza di Roma, all'università di Teramo (dove è stato preside della facoltà di Giurisprudenza, dal 2001 al 2005) e infine all'università di Roma III[1], come professore ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico.

Al suo primo volume, L'entrata in vigore delle leggi, 1986 hanno fatto seguito vari testi di cui è stato curatore, un codice e molti altri libri, alcuni divulgativi, su temi politici e costituzionali. Ha anche pubblicato due romanzi: Doppio riflesso (2012) e Risa (2018).

È editorialista di Repubblica e L'Espresso. In precedenza ha scritto su Italia Oggi (1998-2000), Il Riformista (2003-2006), La Stampa (1998-2010), Il Sole 24 Ore (2009-2011) e Il Corriere della Sera (2011-2016).

Tra i riconoscimenti un premio alla cultura della Presidenza del Consiglio dei ministri, il premio Tosato, il premio Giurista dell'anno conferito dall'European Law Students' Association, il premio Libri dell'anno nella scienza giuridica, il Premio per la cultura mediterranea, il premio Borsellino, il premio Telamone, il Premio Croce, il Premio Giovenale e il Premio Margherita Hack. Nel 2015 il suo libro La piccola eguaglianza (Einaudi) è stato finalista al Premio estense e ha ricevuto una menzione speciale al Premio Montecitorio.

Dall'8 marzo 2016 è componente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

PREANNUNCIO:
La Scuola ospiterà il prossimo 17 dicembre l'Europarlamentare Silvia Costa, già Presidente della Commissione Cultura che si intratterrà  sulle "POLITICHE EUROPEE E la CULTURA"  (12/12/2018 - ITL/ITNET)

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