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DIRITTI DEI CITTADINI - PRIVACY - SORO (AUTORITA' GARANTE) : "POTENZIALITA' NUOVE TECNOLOGIE ESIGONO REGOLE CAPACI DI RESTITUIRE ALLA PERSONA CENTRALITA' NEGATA DA ECONOMIA FONDATA SU SFRUTTAMENTO DATI"

(2018-07-10)

  "Per molto tempo i governi, in ogni angolo del pianeta, hanno sottostimato gli effetti e i rischi di un regime privo di regolamentazione, nel quale i grandi gestori delle piattaforme del web hanno scritto le regole, promuovendo un processo inarrestabile di acquisizioni e concentrazioni, dando vita all’attuale sistema di oligopoli. " Lo ha sottolineato il Garante della Privacy Antonello Soro, presentando oggi alla Camera il Rapporto 2017, stigmatizzando il  il potere di orientare i comportamenti di diversi miliardi di persone acquisito dal sistema di oligopoli: non solo nei consumi ma anche nella più generale visione sociale e culturale. " Con ciò  "hanno guadagnato uno straordinario potere economico, per il ruolo di intermediari sempre più esclusivi tra produttori e consumatori e per le implicazioni che le tecnologie data intensive, l’intelligenza artificiale, la big data analytics hanno sulla dinamica dei mercati, al crocevia tra economia dell’informazione e della condivisione."
Ma "La distribuzione e la natura di questo potere hanno generato una inedita domanda di garanzie e, insieme, il timore di una progressiva riduzione degli spazi di libertà ed intimità individuale che hanno rappresentato il fondamento consolidato delle democrazie liberali del ventesimo secolo. "

Oggi "È cresciuta la consapevolezza del fatto che non possono essere i protocolli informatici o le condizioni generali di contratto, unilateralmente stabilite dai big tech, il codice normativo del digitale, su cui fondare diritti e doveri, nel contesto in cui più di ogni altro si dispiega la nostra esistenza.
Proprio le straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie esigono, infatti, uno statuto di regole capace di restituire alla persona quella centralità altrimenti negata dall’economia fondata sullo sfruttamento dei dati: materia prima di un nuovo capitalismo estrattivo alimentato da frammenti, spesso delicatissimi, della nostra vita.

In questo senso, l’assunzione da parte dell’Unione europea di un unico quadro normativo in tema di protezione dati - proprio in una fase storica in cui riemergono nazionalismi e spinte divisive e si fa più forte la tendenza a creare barriere
alla libera circolazione di beni e persone - è una scelta densa di conseguenze politiche, che proietta l’Unione su una linea di avanguardia rispetto al governo della società digitale e della straordinaria complessità che la caratterizza.

Il nuovo quadro giuridico europeo ha, infatti, il merito di porre al centro dell’agenda politica le implicazioni del digitale sulla libertà, l’autodeterminazione, l’identità: definita, questa, sempre più a partire dalle caratteristiche che altri - nel nome del primato degli algoritmi - ci attribuiscono, scrivendo per noi la nostra storia.

Il caso recente di Cambridge Analytica - punta di un iceberg sicuramente ben più esteso - ha reso evidenti le implicazioni di ordine politico e ordinamentale della nuova geografia dei poteri delineata dal digitale.
L’ex amministratore delegato di CA, già nel 2016 dichiarava di disporre di “qualcosa di simile a 4-5 mila data point per ogni statunitense adulto”, utilizzabili secondo un metodo che a suo dire sarebbe stato già applicato in “oltre duecento
elezioni nel mondo”.  Una parte rilevante delle inserzioni politiche veicolate online durante la scorsa campagna presidenziale negli Stati Uniti parrebbe ascrivibile a gruppi sospetti, localizzati all’estero, che attraverso marketing politico personalizzato basato sulla profilazione, tentavano di condizionare l’esito delle elezioni.
È, in questo senso, significativo che la California abbia approvato e il Congresso degli Stati Uniti esamini un disegno di legge per l’introduzione di una disciplina privacy sul modello europeo, dopo aver compreso come l’assenza i regolazione possa consentire alle potenze straniere di condizionare, con un sapiente quanto spregiudicato uso della profilazione, persino il processo elettorale.

Dunque "La mancanza di un quadro regolatorio adeguato, anziché favorire il libero dispiegarsi delle dinamiche di mercato e, con esse, il benessere collettivo, espone a rischio la stessa sovranità, rendendo vulnerabili proprio gli Stati che non hanno disciplinato le condizioni per un corretto sviluppo dell’economia digitale.

Molte sono le questioni aperte.
Fake news, hate speech, cyberbullismo, eterna memoria della rete, ma anche minacce cibernetiche, algoritmi predittivi, uso massivo dei big data, persuasione occulta e social engineering funzionale ad attacchi informatici. Questi ultimi in
Italia, nel solo mese di maggio, hanno toccato la soglia di 140 al giorno. Dal 25 maggio sono aumentate di oltre il 500% le comunicazioni di data breach al Garante, che hanno interessato, assieme a quelli notificati a partire da marzo, oltre 330.000 persone.
D’altra parte, in un mondo dove tutto di noi sarà sempre più connesso, saremo sempre più vulnerabili, perché ogni oggetto con cui veniamo a contatto  può diventare il canale di accesso per un attacco informatico, per una violazione
della nostra persona.
Per questo è indispensabile fare della protezione dei dati una priorità delle politiche pubbliche.
Il ruolo di questo diritto e della sua tutela nella realtà attuale è, per altro verso, il portato di una società fondata sul potere della personalizzazione dei con tenuti proposti, al contrario dei mass media tradizionali, basati invece sull’universalità e unicità del servizio offerto.

Il web di cui facciamo esperienza non è, dunque, la rete, ma soltanto la sua parte selezionata da algoritmi che, analizzando le nostre attività e preferenze, ci espongono a contenuti il più possibile affini ad esse, per esigenze di massimizzazione dei ricavi da parte dei gestori, legate al tempo di permanenza e al traffico online.

Siamo dunque soggetti - più di quanto ne siamo consapevoli - a una sorveglianza digitale, in gran parte occulta, prevalentemente a fini commerciali e destinata, fatalmente, ad espandersi anche su altri piani, con effetti dirompenti sotto il profilo sociale.

La definizione “Internet of Me”, riferita al flusso di dati che dalla rete giunge al singolo consumatore, con contenuti personalizzati, attraverso oggetti di uso quotidiano capaci di apprendere dall’esperienza e adattarsi in maniera evolutiva
ai comportamenti, è in questo senso significativa.
Essa è infatti costruita su di un singolare ossimoro: internet dovrebbe essere il mondo, tutto ciò che è al di fuori di me e con cui “io” interagisco. Diviene invece la porzione di mondo che mi conferma nelle mie idee, la rappresentazione
immateriale della realtà che mi sono costruito.

Algoritmi e libertà
Il legislatore europeo ha accolto e rilanciato la sfida del digitale delineando un quadro giuridico organico che, dal commerciale al giudiziario, dal lavoro alla ricerca scientifica, fornisce i criteri regolativi essenziali per beneficiare delle straordinarie opportunità dell’innovazione senza rinunciare alla libertà, all’autodeterminazione, persino all’eguaglianza: per scegliere liberamente e consapevolmente nella realtà digitale.

E si tratta di regole che hanno un impatto tutt’altro che irrilevante. Si pensi ai possibili effetti di una diffusa applicazione del diritto alla portabilità dei dati, che contrastando i fenomeni anticompetitivi del lock-in potrebbe scalfire l’intangibilità degli oligopoli, soprattutto se accompagnata dall’interoperabilità dei sistemi, indispensabile ai fini pro-concorrenziali.
Un insieme di regole di portata innovativa che si dimostrano, in questa prospettiva, un efficacissimo presidio antitrust.
L’obiettivo di rendere l’innovazione un elemento di progresso anche sociale e umano è, del resto, il filo rosso sotteso ad ogni singola disposizione del Regolamento.

Tutto questo viene perseguito in un quadro che costituisce una nuova sfida per tutti gli operatori coinvolti, nel quale la tendenziale eliminazione di molti controlli preventivi è compensata dall’incorporazione nei trattamenti di misure di
tutela e prevenzione del rischio, oltre che dalla più generale responsabilizzazione del titolare.

Al quale del resto sono riconosciute nuove possibilità di utilizzo dei dati, nell’economia dell’accesso - non più del possesso - con un rapporto tra consumatore e impresa molto più dinamico, nel quale si inseriscono nuove figure di lavoratori quali i protagonisti, sempre più vulnerabili, della gig economy.

E a fronte di tutto questo è significativo il rafforzamento dei diritti dell’interessato, anche rispetto alle applicazioni dell’intelligenza artificiale: tema che sta entrando finalmente nell’agenda politica.
Indicativo il fatto che il 10 aprile scorso 25 governi abbiano sottoscritto un accordo volto a sancire l’Alleanza Europea per l’Intelligenza Artificiale, decuplicando gli investimenti in ricerca, promuovendo una strategia per affrontarne l’impatto socio-economico e un codice etico fondato sul binomio responsabilità-sicurezza.

Sono infatti dirimenti le questioni etiche connesse alle varie applicazioni dell’intelligenza artificiale e al rapporto tra uomo e macchina: a partire dall’interrogativo se possa quest’ultima, del tutto indipendentemente dal suo creatore, assumere scelte proprie e imprevedibili, divenendo autonomo soggetto di diritto, centro di imputazione di responsabilità giuridica.

....Gli algoritmi non sono neutri sillogismi di calcolo, ma opinioni umane strutturate in forma matematica che, come tali, riflettono, in misura più o meno rilevante, le precomprensioni di chi li progetta, rischiando di volgere la discriminazione
algoritmica in discriminazione sociale.
Rispetto a questi rischi, risultano importanti le garanzie sancite dal nuovo quadro giuridico in ordine ai processi decisionali automatizzati, assicurandone la contestabilità e la trasparenza della logica, ed esigendo, almeno in ultima istanza, il filtro dell’uomo, per contrastare la delega incondizionata al cieco determinismo della tecnologia.

Oltre al diritto alla trasparenza delle scelte algoritmiche, altrimenti opache e insindacabili, il legislatore ha poi opportunamente valorizzato - con la sanzione penale - la tutela rispetto ad utilizzi discriminatori della profilazione, in particolare basata su dati sensibili, nel contesto delle attività investigative.

Al di là del quasi ancestrale timore di un uomo vittima delle sue creazioni, emerge quindi il bisogno di fondare basi etiche e giuridiche solide per uno sviluppo davvero sostenibile, perché la tecnologia deve poter servire e integrare,
senza sostituire, l’intelligenza umana.
Le regole di protezione dati, se inscritte negli algoritmi assieme ai principi di precauzione, tutela della dignità umana “by design”, possono ispirarne “l’intelligenza”, nella direzione di un nuovo umanesimo digitale.

Del resto, se l’Europa giocherà un ruolo importante in questa partita, sarà non tanto e non solo per gli investimenti e le risorse che stanzierà, quanto per la capacità di dirigere l’innovazione in modo da coniugare etica e tecnica, libertà e
algoritmi, mettendoli al servizio dell’uomo secondo quel “principio di responsabilità” indispensabile per governare il futuro. 
L’applicabilità del nuovo quadro giuridico anche a trattamenti svolti da soggetti collocati al di fuori dell’Unione europea, ma con un impatto rilevante per i cittadini europei, segna una conquista fondamentale.
Costringendo anche le imprese non europee ad adeguarvisi, questa disciplina stimola infatti una vera e propria convergenza globale sui suoi principi e sul suo modo di coniugare innovazione e dignità umana, che si sta rivelando vincente nel contesto attuale, se è vero che un numero crescente di Paesi stanno adottando normative simili.

È auspicabile che questa convergenza rappresenti il primo passo per il riconoscimento universale del diritto alla protezione dati quale diritto fondamentale della persona, oltre che necessario presupposto di democrazia.

Libertà di espressione, dignità, informazione
Nella società disintermediata ciascuno diviene al tempo stesso fruitore e produttore di informazione, con un indubbio potenziamento della libertà di espressione ma con il rischio, per converso, di una generale sottovalutazione dell’importanza dell’attendibilità delle notizie diffuse, della loro qualità, esattezza, correttezza. A farne le spese sono spesso i bersagli dell’hate speech o di campagne diffamatorie, scelti generalmente quali capri espiatori in ragione di proprie vulnerabilità.

In tale contesto, il ruolo del giornalista si carica ulteriormente di responsabilità nel fornire un’informazione corretta e rispettosa dei diritti altrui: un faro da seguire per orientarsi tra le post-verità.
La protezione dati deve rappresentare, in questo senso, uno dei criteri regolativi essenziali per l’attività giornalistica: il necessario complemento di un’informazione tanto libera e indipendente, quanto rispettosa della dignità della persona.

Quest’auspicio, in particolare, ha ispirato una intensa interlocuzione con gli organi d’informazione, alla quale spesso è seguita l’adesione spontanea di testate o blog. È stato tuttavia necessario rivolgere all’Ordine dei giornalisti un monito
al rispetto del principio di non discriminazione e del diritto all’anonimato del minore, a seguito di un eccesso di dettagli riscontrato in relazione ad alcuni fatti di cronaca.

Di particolare rilievo è risultata anche l’attività volta ad accordare tutela ai minori vittime di cyberbullismo. Se nella maggior parte dei casi è stato rimosso il contenuto lesivo a seguito dell’intervento del Garante o per spontanea adesione
dei gestori, le maggiori criticità si sono riscontrate rispetto a siti extraeuropei.

In materia di “diritto all’oblio” si sono affermati principi importanti, tali da rafforzare incisivamente le tutele dell’interessato. Rileva in tal senso, ad esempio, la decisione sulle richieste di deindicizzazione globale (estesa quindi anche alle versioni extraeuropee dei motori di ricerca), attualmente all’esame della Corte di giustizia e risolta dal Garante nel senso dell’ammissibilità.
Con alcune decisioni, abbiamo voluto ampliare la tutela, includendo, tra i parametri di ricerca delle notizie da deindicizzare, anche specifici attributi personali, ulteriori rispetto al nominativo, volti a meglio specificare l’identità (generalmente sotto il profilo professionale) dell’interessato.

In tal modo, si è inteso impedire che l’“oblio” accordato rispetto alle notizie ricavabili a partire dal nominativo, possa essere vanificato aggiungendo, nella stringa di ricerca, anche soltanto un termine ulteriore: risultato che sarebbe contrario ai principi sanciti con la sentenza Costeja.

I primi accertamenti condotti, in cooperazione con le altre Autorità, sul caso Cambridge Analytica-Facebook, hanno messo in luce le implicazioni, spesso sottovalutate, del sistema di gestione delle inserzioni sulle grandi piattaforme del
web. Esso determina, infatti, un flusso di dati degli utenti verso innumerevoli “terze parti” poco trasparente e, nella maggior parte dei casi, del tutto ignorato dagli interessati. È, questa, una frontiera aperta su cui le Autorità di protezione
dati interverranno, presumibilmente a lungo, avvalendosi dei nuovi strumenti loro riconosciuti - anche rispetto agli OTT - dal Regolamento generale e dal  Regolamento e-privacy.

E-voting, propaganda elettorale, lavoro
Il processo di digitalizzazione investe anche l’attività politica, creando indubbi vantaggi ma anche rischi, spesso sottovalutati.
Significative, in questo senso, le vulnerabilità riscontrate in una piattaforma di partecipazione politica, già interessata da un data breach, rispetto alla quale il Garante ha prescritto le misure necessarie a rafforzare le garanzie di sicurezza dei
dati trattati.
Si è inoltre richiesto di procedere all’anonimizzazione dei dati relativi alla espressione del voto al termine delle relative operazioni, riconfigurando il sistema di e-voting secondo misure di privacy by default.

In ordine alla propaganda elettorale via sms ed e-mail, sono state invece riscontrate alcune illiceità nell’attività svolte da un partito, a livello nazionale e locale, nonché l’indebito utilizzo da parte di un ex assessore, a fini propagandistici,
di indirizzi e-mail acquisiti nell’esercizio del mandato, per il diverso fine dell’assolvimento delle proprie funzioni.

E se l’utilizzo delle nuove tecnologie nell’attività politica va corredato dalle misure necessarie a impedire l’indebita rivelazione di dati sensibili, quali quelli sull’adesione a partiti o movimenti, in un settore come quello del lavoro esso
rischia di rappresentare - se non bilanciato da adeguate cautele - un potenziale fattore di ulteriore squilibrio del rapporto lavorativo.
Qui il pericolo maggiore non è tanto e non è solo la sostituzione del dipendente con la macchina che “gli ruberebbe il lavoro”, quanto piuttosto la robotizzazione dell’uomo-lavoratore.

Emergono nuovi tipi di lavoro, attratti nella categoria generale della gig economy e, come nel caso dei riders, sempre più inscritti in un rapporto strettissimo tra uomo e algoritmo, in cui è il secondo a impartire direttive al primo, privato
persino della relazione interpersonale con un datore di lavoro, verso il quale esercitare i propri diritti.
In tale contesto, caratterizzato peraltro dalla sottoposizione del lavoratore a inedite quanto pervasive forme di controllo, la protezione dati assurge a presupposto necessario di libertà del lavoratore nell’esecuzione della prestazione, nonché
fattore di riequilibrio di un rapporto di forza sempre più sbilanciato.

Muovono da questa consapevolezza alcune recenti sentenze della Cedu, volte a ribadire, in particolare, l’esigenza di una significativa gradualità nei controlli datoriali e la puntuale informazione del lavoratore in ordine alle loro caratteristiche.
Ancora, in relazione alla sempre più diffusa videosorveglianza nei luoghi di lavoro, la Corte ha precisato come la legittima aspettativa di riservatezza del lavoratore non possa venir meno in ragione del mero carattere pubblico del luogo in cui si svolge la prestazione lavorativa.
Questi principi hanno ispirato, tra gli altri, l’Autorità nell’interpretazione della disciplina dei controlli sul lavoro, come modificata dal Jobs Act.
In questo senso, ad esempio, i sistemi di geolocalizzazione (installati anche su smartphone o tablet) sono stati ritenuti in linea prevalente non qualificabili quali strumenti direttamente preordinati all’esecuzione della prestazione lavorativa,
con conseguente applicazione della procedura concertativa o autorizzatoria prevista per i controlli a distanza.

Abbiamo riconosciuto la stessa qualificazione al sistema adottato, negli uffici postali, per gestire la coda agli sportelli, con modalità tali da consentire anche il monitoraggio pervasivo e costante dei dipendenti e per questo, tra l’altro,
dichiarato illecito e conseguentemente vietato.

In questo caso è stato accertato, in particolare, che la “consolle di monitoraggio” funzionale all’attivazione di tale sistema consentiva a oltre 12.000 soggetti incaricati di accedere in via continuativa (memorizzare ed estrarre anche in report individuali) ai dati inerenti tutti gli operatori in servizio, in qualunque momento, presso un determinato ufficio.

Tale esteso monitoraggio è risultato, tra l’altro, incompatibile con il principio di proporzionalità che deve regolare il rapporto tra esigenze datoriali e privacy del lavoratore, per impedire che la tecnologia rappresenti un fattore di regressione volto a comprimere, anziché espandere, le libertà....(10/07/2018-ITL/ITNET)

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