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ITALIANI ALL'ESTERO - STATI UNITI - ELETTORI USA FUGGONO DA PROPOSTE POLITICHE AUTOREFERENZIALI MA ORA ANCHE I DUE GRANDI PARTITI RISULTANO VULNERABILI ALL'AZIONE ESTERNA: IL PARERE DI E.G.SCOLA

(2017-05-18)

"Fino a non più tardi di dieci anni fa nella democrazia americana i candidati espressi per la presidenza o per il Congresso, di entrambi i partiti, provenivano da un contesto ben definito. Un’estrazione culturale, politica, economica, razziale e se vogliamo anche di genere non soggetta a mutamenti significativi.

Certo, nella storia recente c’è stato anche Ronald Reagan, ma il solco della sua presidenza è stato comunque tracciato rispettando valori tipici della tradizione politica americana.

L’arrivo di Donald Trump invece cambia le carte in tavola. Non solo spazza via una tradizione conservatrice di lungo corso, ma completa la rivoluzione anti-establishment del sistema politico, iniziata otto anni prima con l’elezione di un cittadino “afroamericano” alla Casa Bianca." A riflettere sul rapporto fra cittadini e sistema dei partiti nella politica americana di ieri e di oggi è Eugenio G.Scola, specialista del rapporto fra politica e cultura americana. Laureato in legge all'università di Firenze, si è specializzato a New York. Ha partecipato alla campagna elettorale di Obama nel 2008 con iDemocratici residenti in Italia .

"In America - spiega Scola - esiste un’avversione generale per l’élite politica, considerata auto-referenziale quando non una casta corrotta – un’avversione più forte, radicata e diffusa di quella europea. Però a differenza dell’Europa, dove il vento incendiario populista e antisistema ha fatto proliferare e ingrossare i partiti estremisti o alternativi ai meccanismi di alternanza al governo, negli Stati Uniti i due grandi partiti storici sembravano rimanere quasi illesi, essendo in grado di adattarsi e cooptare forze fresche. Illesi solo in apparenza, perché come si è visto le ultime due elezioni presidenziali hanno certificato la totale vulnerabilità dei Repubblicani e dei Democratici all’azione di candidati esterni, estranei e anche invisi ai loro gruppi dirigenti.

L’ostilità per l’establishment, pompata nell’opinione pubblica da un abile uso dei nuovi media, è stata fondamentale negli exploit sia di Trump che di Bernie Sanders. La sconfitta di quest’ultimo per un’incollatura alle primarie democratiche rimane un clamoroso esempio per capire come la società americana e il suo rapporto con la politica si stiano trasformando in profondità.

Dopo questa sonora lezione e grazie anche alla spinta del movimento della cosiddetta “resistance” (che in sostanza cerca di mettere in dubbio la legittimità stesso dell’attuale presidenza), l’opposizione democratica in Congresso è diventata intransigente, tanto da costringere, nel caso della ratifica della nomina del giudice della Corte Suprema Neil Gorsuch il 31 gennaio, i Repubblicani alla nuclear option: si è avuto così lo stravolgimento dei regolamenti del Senato, con la modifica del requisito nel procedimento di approvazione della maggioranza qualificata in maggioranza semplice, ovvero l’unica che avessero a disposizione i Repubblicani.

Questo irrigidimento dei parlamentari democratici non sembra però esser servito per far cambiare percezione all’opinione pubblica americana sul partito dell’asinello. Proprio sul punto è emblematico il caso editoriale che sta tenendo banco negli Stati Uniti in queste settimane dell’attore e scrittore con simpatie repubblicane Michael Knowles, “Reasons to vote for Democrats: a comprehensive guide”. Un libro sarcastico che sbeffeggia i Democratici descrivendoli più con pagine bianche che con paragrafi scritti. Ad esempio, i capitoli su economia, diritti civili, sicurezza nazionale, immigrazione, non contengono parole. Lo stesso Donald Trump ha fatto i complimenti a Knowles su Twitter, contribuendo al salto del libro al primo posto delle vendite di Amazon.

In realtà, non ci si può sorprendere se in questo momento storico personaggi come Bernie Sanders (“un vero socialista” nel paese del capitalismo) o Donald Trump siano riusciti a penetrare più o meno a fondo il sistema politico. La cittadinanza e gli elettori letteralmente fuggono da quelle proposte politiche che sanno di preconfezionato e autoreferenziale – a prescidere da quanto fondata sia questa loro impressione – correndo invece in direzione contraria, cioè verso l’imprevisto che può arrivare da figure politiche di rottura.

Negli ultimi mesi, si è verificato un altro caso, abbastanza clamoroso, che può ascriversi a questa tendenza: Jon Ossoff. Ossoff, un documentarista investigativo trentenne, ex assistente parlamentare del deputato Democratico Hank Johnson (afroamericano e buddista), si è candidato per i Democratici nell’elezione suppletiva del seggio del 6° distretto di Atlanta (Georgia), lasciato vacante dal Repubblicano Tom Price, intanto divenuto nuovo ministro della Sanità del gabinetto Trump.

Nel 6° distretto la maggior parte dell’elettorato è spiccatamente conservatore, bianco, ma anche ben istruito e ricco. In tale contesto, Ossoff sta compiendo un mezzo miracolo. Ha iniziato la sua campagna con piccole donazioni online, ma è arrivato anche grazie al suo riconosciuto carisma a raccogliere più di 8 milioni di dollari: una cifra incredibile se si pensa che i precedenti candidati democratici si erano sempre fermati a poche migliaia di dollari in quel distretto di solida tradizione repubblicana.

Molte di queste donazioni, così come molti dei volontari della sua campagna, arrivano da tutto il paese e, anche se il giovane candidato democratico ha ribadito più volte che  la sua “è una sfida locale”, il salto a livello nazionale c’è già stato. Addirittura il Presidente Trump che ha deciso di dire la sua su Ossoff, definendolo in un video e un tweet con queste parole inequivoche: “The super Liberal Democrat in the Georgia Congressional race wants to protect criminals, allow illegal immigration and raise taxes!”, “Democrat Jon Ossoff would be a disaster in Congress. VERY weak on crime and illegal immigration, bad for jobs and wants higher taxes. Say NO”.

Per adesso, nel primo turno del 18 aprile ha conquistato un inaspettato 48%, lasciando indietro gli altri 11 candidati Repubblicani e i restanti indipendenti. Sicuramente al secondo turno previsto il 20 giugno, i Repubblicani si ricompatteranno sul loro candidato più forte, l’ex Segretario di Stato della Georgia Karen Handel, arrivata seconda al primo turno con meno del 20 % dei voti. Certo è che, in ogni caso, il voto si è trasformato in qualcosa di più di una semplice elezione suppletiva, se anche il Presidente si sta impegnando in prima persona: il 29 aprile ha raccolto circa 750mila dollari nella sua visita elettorale in Georgia. La sfida tra la giovane leva della sinistra del partito Democratico e Karen Handel, molto vicina all’establishment Repubblicano, non è quindi soltanto una sfida tra i due partiti: dimostra di incarnare la contrapposizione tra le due vere anime della politica americana, l’”establishment” appunto (in questo caso Repubblicano), e gli “eretici” che lo contestano. E si tratta di una sfida chiaramente trasversale ai due partiti, proprio come nella campagna presidenziale 2016.

Comunque vada, John Ossoff è da tenere d’occhio per il futuro del campo Democratico - non fosse altro che per la capacità di sfondare in un segmento di elettorato da sempre estraneo al partito. Intanto, un altro trentenne ha già fatto mostra di interessarsi al palcoscenico politico nazionale: Mark Zuckerberg. Il fondatore di Facebook, dopo essersi fatto sentire in chiave anti-Trump e aver divulgato la sua visione del mondo attraverso una serie di messaggi, sembra volersi impegnare direttamente, forse in vista di una scommessa politica ai massimi livelli. Ha appena fatto un viaggio in due stati cruciali per la politica americana come Ohio e Michigan, dove apparentemente non ha nessun interesse personale, ma lo ha giustificato parlando di “una missione” per comprendere il paese e rendere il suo prodotto (che per ora è appunto Facebook) più aderente alla realtà e meno permeabile alle fake news.

Come dicevamo, però, la scelta e il calendario del viaggio sembrano tutt’altro che neutrali. Per Zuckerberg, partire proprio da due swing States e incontrare prima una famiglia democratica che ha votato Trump in Ohio, poi gli operai di una fabbrica Ford fuori Detroit, infine gli studenti musulmani di un’università locale del Michigan, costituisce qualcosa in più di una semplice inchiesta volta a rendere “più reale” il suo social network. D’altronde, una dichiarazione dei redditi multimilionaria come quella del CEO di Facebook non sarebbe un ostacolo all’autopromozione come candidato anti-establishment, se è vero che negli working-class Ohio e Michigan è stato il miliardario Donald Trump a vincere le elezioni nel novembre 2016.

Insomma, conclude Scola, "La situazione è sempre più pasticciata alla Casa Bianca dopo il siluramento del capo del FBI James Comey, e soprattutto dopo l’ultimo scandalo rivelato dal Washington Post sulle informazioni riservate fornite da Trump al ministro degli Esteri Russo Sergej Lavrov e l’ambasciatore Sergej Kislyak. Davanti a un eventuale nuovo Watergate, a un inciampo o a uno sgambetto di qualsiasi tipo al Presidente, i Democratici hanno ora l’occasione di farsi trovare pronti con una nuova classe dirigente che sia considerata potabile nel paese, a differenza di quanto accaduto con Hillary Clinton.(18/05/2017-ITL/ITNET)


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